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Politica

Inside the Mossad

Stefano Olivari 18/07/2020

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Inside the Mossad rientra a pieno titolo nella nuova tendenza, non solo di Netflix dove lo abbiamo appena visto, ma di un po’ tutte le piattaforme, quella del documentario a puntate. Scelta che consente di dare respiro al racconto, di non lasciare curiosità insoddisfatte e anche, va detto, di ammortizzare i costi visto che quattro puntate sono il quadruplo di una.

Comunque Inside the Mossad mantiene al 100% ciò che promette. Creato da Duki Dror (che è anche il regista), Yossi Melman e Chen Shelach, questa produzione israeliana racconta attraverso interviste ad ex capi ed agenti operativi del servizio segreto più famoso ed efficiente del mondo, successi ed insuccessi del Mossad, dividendo il racconto in quattro macrotemi, uno per ogni puntata.

In In Poison, bomb or silencer si raccontano retroscena delle più clamorose operazioni sul campo del Mossad, a partire dalla cattura di Eichmann. In Friends for the moment gli ex ufficiali del Mossad spiegano come acquisire risorse, cioè informatori, con le buone o con le cattive: la puntata più interessante, perché raramente l’argomento viene trattato. The theater of life è centrato sulle coperture usate dagli agenti e sul cortocircuito fra le varie identità. No limit è invece su quella che si può definire politica estera, sui rapporti del Mossad con governi stranieri che arrivano dove il governo israeliano del momento non può arrivare.

L’audio è in inglese o in ebraico, i sottotitoli in italiano sono fatti davvero male e quando possibile consigliamo quindi di non seguirli. Il tono generale delle interviste è leggermente accusatorio nei confronti del Mossad, le risposte sempre convinte come è logico per chi ha vissuto una vita sotto copertura. Un ottimo lavoro giornalistico, che può riuscire nel miracolo di piacere sia ai tanti nemici di Israele (noi casualmente detestiamo tutti quelli che detestano Israele) sia a chi ritiene questo stato davvero un miracolo da ammirare.

Gli interventi più interessanti sono quelli Rami Ben Barak, ex dirigente del Mossad e adesso politico nelle fila di Yesh Atid (partito di centro, che nella Knesset attuale è all’opposizione), che svela un po’ del marketing del servizio segreto israeliano più famoso (poi ci sono anche Aman, quello militare, e soprattutto lo Shin Bet per la sicurezza interna), basato in sostanza sul fatto di non smentire mai i propri nemici che vedono la mano del Mossad ovunque: fondamentale, dice Ben Barak, è che terroristi e paesi ostili pensino che il Mossad possa fare qualsiasi cosa, anche quando le risorse sono limitatissime (in questo senso favoloso il racconto del supporto alla resistenza nel Sud Sudan cristiano contro il Nord musulmano).

Ben Barak e altri, compreso il leggendario (non solo per l’operazione Eichmann) Rafi Eitan, sostengono una tesi interessante e cioè che i migliori agenti segreti non arrivino dal mondo militare ma siano civili con particolari attitudini, capitati nel Mossad spesso per caso o per cooptazione. I militari possono sparare meglio ma hanno processi decisionali schematici, poco adatti alla creatività, vista la quantità di imprevisti, e alla doppia morale (etica e senso del dovere sovrumani unita a comportamenti quotidiani spregevoli) necessarie per sopravvivere nel Mossad ed in generale nei servizi segreti che davvero fanno la differenza.

Il cuore del documentario, oltre al citare sia vittorie sia sconfitte del Mossad, è proprio questo: la convinzione nelle proprie idee non è in contrasto, anzi, con il metterle da parte temporaneamente quando serve per farle vincere. Il fine giustifica i mezzi, avrebbe detto nostra nonna.

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