Football & Texas
I due mondi di Texas e Texas A&M
Roberto Gotta 19/03/2016
Si è visto come il football abbia preso piede relativamente tardi, nei licei texani, cioè parecchi anni dopo l’inizio del XX secolo. A livello universitario lo sviluppo fu differente: un po’ per la maggiore disponibilità di tempo degli studenti, un po’ perché i genitori erano comunque lontani e non potevano proiettare sui figli le loro paure, le prime squadre si erano formate senza particolari ostacoli legislativi o ambientali, grazie anche all’influenza proveniente dalla East Coast che non si era invece infiltrata nella categoria scolastica più bassa. È del 1893 la formazione della prima squadra alla University of Texas – che qui chiameremo solo Texas – e di dodici mesi dopo la prima sfida contro Texas A&M, nata però con il nome di Agricultural and Mechanical College of Texas che ne determinò immediatamente la missione. E così le due grandi rivali furono subito completamente diverse l’una dall’altra: nella costituzione, nell’obiettivo educativo, nell’ambiente circostante, nella composizione del corpo studentesco. Due strade parallele e distanti, che mai si sono incontrate, nella teoria del programma di crescita, in oltre 120 anni di storia, dando vita ad una contrapposizione che ha segnato il percorso di entrambe verso l’eccellenza nel football.
Ma c’è un problema, un problema forte. Il medesimo che si verifica in tanti ambiti sportivi in cui con il passare del tempo si stabiliscano livelli diversi di competitività tra squadre geograficamente contigue: come ad esempio in Inghilterra il Manchester City aspira massimamente da sempre a battere il Manchester United, ma per lo United, disdegnando i cugini, conta molto di più la rivalità con il Liverpool, così il tragitto cronologico ed emotivo del college football in Texas ha fatto sì che se per A&M la partita più attesa dell’anno sia quella contro Texas, per quest’ultima la data da cercare immediatamente sul calendario sia un’altra, quella della sfida contro Oklahoma, che è al di là del confine segnato dal Red River ma viene abbracciata in un viluppo passionale impossibile da eliminare. E allora l’intreccio diventa curioso, una sorta di progressione verso l’alto: A&M, un solo titolo NCAA vinto (1939), guarda prima di tutto a Texas (campione nel 1963, 1969, 1970 e 2005), mentre UT probabilmente vive con maggiore intensità emotiva la rivalità con i Sooners perché più spesso dall’esito della partita dipendeva, anche quando le due squadre erano in conference diverse (Southwest e Big8, rispettivamente), l’esito dell’intera stagione, e magari del titolo nazionale, come viene chiamato il titolo NCAA nel football.
Non è il caso di stabilire graduatorie del sentimento, ovviamente, ma il ritratto delle interazioni emotive verte sostanzialmente attorno a una considerazione che non va mai dimenticata: i tifosi dei Longhorns e gli studenti di Texas si ritengono superiori a tutti gli altri, con quel tipo di snobismo para-razzista che nasce dalla drammatica combinazione, riscontrabile anche dalle parti di casa nostra, di disponibilità economica e senso di arrogante primato morale, quasi antropologico nei confronti di chi non discute ogni giorno del sesso degli angeli o della salvezza del capretto birmano ma si dedica ad attività più pratiche. I Longhorns sono dunque, secondo questa visione che non va applicata ovviamente mai in senso generale e generico, i figli del Texas più ricco ma anche di quello scapigliato e sandalaro, che nella capitale statale nonché sede del college e centro di musica antica e di avanguardia, Austin, si è sempre trovato a casa. A Texas gli illuminati progressisti, talmente benestanti da potersi permettere (è un classico!) di atteggiarsi ad alternativi, a Texas A&M i buzzurri campagnoli con il dito sempre sul grilletto, a Oklahoma una miscela di bifolchi e figli di petrolieri arricchiti. Che potevano però rivoltare questa cattiva nomea rendendola un motivo di orgoglio, una reazione contro lo snobismo radical-chic del volantinaro con maglia psichedelica e bonifico del babbo.
C’è una celebre canzone country, Okie from Muskogee di Merle Haggard, che nel 1969, in piena contestazione giovanile, ribadiva con secca forza i valori che in quegli anni venivano messi in discussione in posti come UT ma certo non A&M o OU (Oklahoma): sono inequivocabili frasi come «Noi a Muskogee non ci facciamo crescere i capelli come gli hippy di San Francisco; gli uomini calzano stivali di cuoio, qui non si vedono sandali o collanine e gli studenti rispettano ancora il preside», anche se nessuno ha mai saputo con certezza se Haggard intendesse esprimere sarcasmo o partecipazione coinvolta, con esse. Che fosse un Okie vero, cioè uno dei tanti nati da famiglie dell’Oklahoma trasferitesi in California durante il Dust Bowl, era però pacifico. Dunque era un inferiore, nella visione del mondo prevalente nel campus di Texas, riflessa anche nella frase che un giocatore di high school, Willie Zapalac Jr, aveva pronunciato al tempo in cui il padre era assistente a Texas A&M: «La mia massima aspirazione sarebbe che Texas mi offrisse una borsa di studio. E rifiutarla». È curioso però notare come anni dopo Zapalac effettivamente ricevette l’offerta dai Longhorns… e la accettò, diventando anzi un colonna della squadra campione nel 1969. Si può comunque capire come la rivalità abbia sempre preso percorsi diversi, tra i tre college del triangolo più vivace della scena del Southwest.
Estratto del capitolo VIII, ‘La sfida eterna’ del libro ‘Football & Texas – Storie americane’, di Roberto Gotta (Indiscreto, 2011). In vendita a 4,99 euro in versione eBook per Kindle di Amazon, Kobo di Mondadori, e iPad-iPhone, mentre per tutti gli altri tipi di eReader il download può essere effettuato dalla piattaforma BookRepublic. La versione cartacea costa invece 18 euro ed è in vendita presso Amazon, Hoepli e altre librerie italiane. Distributore in esclusiva: Distribook srl.