Calcio
Azionariato popolare meglio di Cairo
Andrea Ferrari 10/09/2024
Nell’ennesima estate in cui abbiamo sentito legioni di giornalisti esaltarsi per le plusvalenze e gli ingaggi spalmati ci ha colpito un articolo di Calcio e Finanza in cui si evince che dal 2013 Urbano Cairo ha messo di tasca sua nel Torino una media di un milione e mezzo circa di Euro a stagione, una cifra alla portata dei 15.000 tifosi scesi in strada a contestarlo se mettessero 100 euro a testa a stagione e diventassero azionisti del club, come avviene in diversi paesi europei.
Il caso del Torino non è isolato, ma rappresenta un trend generalizzato, basti pensare al Genoa di proprietà dei 777 (omaggio alla Dark Polo Gang?) che, pur essendo il quarto club di serie A per abbonamenti, ha pensato bene di ringraziare i propri tifosi cedendo i pezzi pregiati della rosa, pratica in voga da anni al Verona, anche a stagione in corso, e che all’ultimo giro non è culminata nella retrocessione solo grazie alla bravura di Sean Sogliano e di Baroni, scappato appena possibile. Fra l’altro in un’altra realtà, la Lazio, dove l’azionariato popolare avrebbe senso.
Se era comprensibile che non si parlasse di azionariato popolare nell’epoca d’oro della Serie A, in cui sbarcavano campioni veri anche nelle provinciali grazie a presidenti, anzi patron (ovviamente vulcanici, aggettivo che abbracciava un range di significati che andavano dal simpatico al mafioso), che mettevano soldi veri nel calcio, un’Italia dove Berlusconi, Gardini e Benetton si sfidavano persino nel volley, non lo è oggi in un Paese sempre più con le pezze al culo, come direbbero a Davos o anche soltanto a Cernobbio.
Un ulteriore aspetto a favore dell’azionariato popolare è che a fronte di un desolante panorama in cui risaltano soprattutto proprietari con il braccino corto e fondi la cui mission è puramente speculativa, aumentano le presenze allo stadio e le amministrazioni locali non vedono l’ora di cedere gli stadi ai club. Eppure testate con sempre meno lettori e sempre più gallery sulle wags, non trovano il tempo di affrontare il tema, tra un elogio e l’altro alle proprietà “attente ai bilanci” omettendo di fare inchieste sulla gestione dei club stessi, ad esempio sul perché la Sampdoria sia quasi fallita nonostante gli oltre 100 milioni di plusvalenze (fonte:Transfermarkt) dell’era Ferrero.
Quindi, essendo estinti i mecenati, perchè non copiare dall’estero, magari da una realistica Bundesliga senza mettersi a fare esempi strani, le soluzioni che incentivino l’azionariato dei tifosi che sono l’unico vero “asset” che permette al calcio di esistere e resistere? Al di là di come la si pensi sul tema, ci sfugge la logica editoriale del santificare i proprietari che “tengono i bilanci a posto”. Semmai bisognerebbe fare i complimenti a qualche dirigente… Ma a questo punto non ci sarebbe bisogno dei vari Cardinale, Oaktree, Friedkin, Lotito, De Laurentiis, Cairo, eccetera. Ad alto livello in Italia gli unici ‘di una volta’ sono gli Agnelli-Elkann, che ricapitalizzano e ripartono dopo ogni ciclo di disastri finanziari: l’azionariato popolare non batte loro, ma tutti gli altri sì.