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Basket

C’era una volta la zona

Stefano Olivari 20/10/2008

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1. Le prime giornate di campionato sono tradizionalmente fatte apposta per sconfessare quanto accaduto una settimana prima, anche perché il calendario influisce sulla graduatoria in misura evidente. Ad esempio, Teramo è senza dubbio la squadra sorpresa del giorno, con due vittorie in due gare e tuttavia ha battuto Ferrara e Biella, entrambe a secco di vittorie e probabilmente squadre di terza fascia, se il campionato come si dice avrà appunto solo tre fasce di merito e non quattro. Di sicuro il calendario non l’ha danneggiata anche se a Biella ha vinto senza Poeta. Roma, che nella prima giornata aveva battuto Caserta in casa dopo un supplementare, ha spadroneggiato a Bologna contro una Fortitudo che a sua volta era stata capace di dominare a Udine con due giocatori in meno (Huertas e Woods). E la stessa Caserta è stata triturata in casa da Cantù, una settimana prima abbattuta da Siena sul proprio campo. Insomma, servirà del tempo per identificare i valori. Sabato Roma ha destato grande impressione contro la Fortitudo ma i bolognesi hanno sbagliato 20 dei primi 21 tiri. Una statistica del genere non si giustifica solo con l’eccellente difesa capitolina. Milano si è fatta rimontare un vantaggio di oltre venti punti dalla Virtus Bologna bloccandosi contro la difesa a zona. Il problema in effetti è che l’Armani Jeans sta segnando un po’ poco. Per quanto bene puoi difendere è dura uccidere le partite segnando meno di 70 punti com’è successo sia a Pesaro che contro la Virtus. Ma si può rispondere che di fatto la partita con la Virtus era stata uccisa, un vantaggio di 22 punti nel terzo quarto quale altro significato deve avere se non partita finita? E tuttavia diciamo anche che la Virtus è la squadra forse più pericolosa da portare ad una volata finale perché già ai tempi della NBA, Earl Boykins i finali tirati riusciva a deciderli.
2. Anche Danilo Gallinari, come aveva fatto Marco Belinelli la scorsa stagione, ha scartato con sdegno l’ipotesi di andare a giocare brevemente nella D-League. E’ chiaro che dal punto di vista di un ragazzo europeo l’idea è interpretata come una mezza bocciatura, un oltraggio, laddove la volontà sarebbe quella di far accumulare al giocatore esperienza, ritmo, minuti di presenza agonistica. Ma c’è un altro aspetto da ricordare: gli europei sono molto legati al concetto di squadra come gruppo più di quanto lo siano gli americani, almeno a livello professionale. Per cui succede che un Gallinari vada a New York e si senta parte della resurrezione dei Knicks, si senta uno che aderisce ad un progetto, un ideale. Lo stesso valeva per Belinelli. La visione degli americani è più centrata sull’individuo, in questo caso sul giocatore, su cosa è meglio per lui e infine per la squadra. Ma un europeo se si sente parte di una squadra vuole esserne protagonista anche emotivamente.
3. Questa è la settimana dell’Eurolega, che ha tanti difetti e non è gestita sempre con un piano preciso in mente ma ha avuto il merito di costruirsi una reputazione tecnica importante persino in America. Sul piano politico il fatto dell’anno è la rottura tra la stessa Eurolega e la lega spagnola che ne aveva guidato la nascita e di fatto è anche la struttura che gestisce l’Uleb, l’unione delle leghe europee, quella che a sua volta dovrebbe contenere la stessa Eurolega. Un gioco di scatole cinesi meno complicato di quanto si pensi. Da una parte ci sono i grandi club europei, grandi nel senso di ricchi, che vogliono un torneo il più chiuso possibile, e dall’altra c’è la lega spagnola che si sente minacciata. A lungo raggio il piano dell’Eurolega è diventare un torneo omogeneo, magari senza arrivare a portare via i suoi club dai campionati nazionali, ma comunque un campionato di riferimento che con il tempo finirà per rendere insulse le leghe nazionali almeno laddove ci sono club effettivamente competitivi su scala europea. La Spagna vuole difendere il suo orticello privilegiato, la sua bella lega, ed ecco perché propone un’Eurolega versione non Champions League come si dice erroneamente ma versione Coppa dei Campioni di una volta, aperta di fatto solo ai campioni nazionali, che non ha alcuna probabilità di essere accettata. E’ chiaro che ha sparato alto per ottenere qualcosa a metà strada e forse anche per limitare un po’ lo strapotere di quei club che hanno preso a dettare le leggi senza curarsi degli altri, vedi CSKA, Maccabi, Panathinaikos.
4. Adesso che Golden State l’ha tagliato siamo curiosi di scoprire se Dan Dickau attenderà un’altra chiamata NBA o tornerà in Europa con un’altra mentalità o forse con quel passaporto polacco che lo renderebbe molto più appetibile in ogni angolo del continente. Dickau ha detto che qualche dolore alla schiena è stato ingigantito dal club di Avellino. Ma questa è un’altra conseguenza dell’introduzione delle finestre di mercato. Il timore di giocare un mese e mezzo in situazione svantaggiosa ha convinto i club a fare subito un bilancio della situazione stranieri. Se Avellino non era convinta di Dickau, fosse una questione fisica o di rendimento, ha fatto bene a porsi il problema subito. Adesso ci sono club con americani in discussione ma se li dovranno portare dietro fino al 24 novembre oppure bruciare il jolly di mercato con la conseguenza di non poter poi intervenire più in situazioni di emergenza improvvisa per infortunio o altro.
5. La vittoria della Virtus Bologna a Milano ha due padri, ovvero il secondo tempo mostruoso di Gui Giovannoni e la chirurgica capacità di Earl Boykins di controllare ritmo e partita nell’ultimo quarto in cui il concetto è quello di mandare subito gli avversari oltre il limite di quattro falli e poi lasciare che lui gestisca la palla, si procuri altri liberi e li trasformi dalla lunetta. Ma è vero che la difesa a zona ha paralizzato l’attacco di Milano. Quella difesa a zona che continua ad essere probabilmente l’arma più sottovalutata del basket moderno. Viene usata pochissimo e solo in situazioni particolari, praticamente nessuno si mette a zona dal primo minuto e in linea di massima è considerata una difesa per deboli. Renato Pasquali ha ammesso di non averla preparata un granché e di averla usata perché ormai non c’era più nulla da perdere. L’efficacia della zona oggi è soprattutto psicologica. Se la fai decentemente obblighi gli avversari a tirare da fuori e se non ci prendono si bloccano mentalmente e sbagliano. Ma nessuno prova a fare la zona, se non come difesa base (Syracuse ha vinto un titolo NCAA facendo la 2-3 per 40 minuti tutte le partite) almeno come proprio strumento difensivo e non necessariamente perché non ci sono altre strade da provare. Oggi ad esempio Roma fa una buona zone-press nella metà campo avversario ma sarebbe interessante se qualcuno provasse a rovesciare un po’ le carte in tavola. In passato ci sono stati allenatori che usavano la zona sul serio, Ezio Cardaioli, Mario De Sisti (spesso difese miste), lo stesso Rudy D’Amico, e si differenziavano dalla massa. Oggi succede troppo poco.
Claudio Limardi
claudio.limardi@gmail.com

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