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Atletica

Fibre bianche

Stefano Olivari 28/08/2009

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Fra i tanti ‘non detti’ dei processi all’atletica italiana ce n’è uno che ci sembra più importante di altri, quello razziale. Razziale ma non necessariamente razzista, in quanto applicato contro noi stessi. In sostanza secondo molti addetti ai lavori un bianco bene allenato non potrebbe competere al massimo livello nella velocità, secondo il solito ragionamento che parte dalle fibre bianche presenti in maggior misura nei velocisti (per arrivare in certi casi alle camere a gas), e sarebbe comunque sfavorito nel mezzofondo per meri motivi di condizionamento aerobico (che non si improvvisa con stage al Sestriere a trent’anni, ma nasce nell’adolescenza). Non possiamo contraddire allenatori che hanno dedicato la vita a questo sport, anche perché queste cose le dicono apertamente solo a quelli della parrocchietta, ma è facile osservare che l’atletica è l’unico sport che permetta di emergere nei paesi con poche strutture e con un’organizzazione carente negli sport di squadra. Tanto per non allontanarci dalla vetrina di Bolt, con i loro personali sarebbero entrati nella finale dei 200 di Berlino Mennea, Pavoni, Torrieri, Tilli, Cavallaro e Puggioni, oltre ovviamente ad Andrew Howe (al 20”28 di Grosseto 2004 c’eravamo). E un posto nei sedici semifinalisti, quindi parliamo sempre di eccellenza, l’avrebbero conquistato anche le migliori versioni di Marras, Simionato, Occhiena, Attene, Fantoni, Caravani, Colombo e Galvan. Ingiusto dimenticare chi sarebbe stato nei 16 anche con il cronometraggio manuale: Anceschi, Ottolina, Benedetti e, rullo di tamburi, Livio Berruti. La sfigata Italia ha quindi prodotto nell’ultimo mezzo secolo ben 19 duecentisti almeno da semifinale mondiale o olimpica: di questi possono essere considerati contemporanei l’ex grande speranza Cavallaro (visto meno di un mese fa agli Assoluti in 21”39), il capro espiatorio Howe (che dall’oro di Goteborg e argento di Osaka ad oggi non è che abbia cambiato madre), Fantoni e Galvan, pur uscendo Howe e Fantoni dal discorso razziale. Se poi diciamo che un quattordicenne veloce di Milano o di Palermo sia più attirato dal calcio rispetto ad un omologo giamaicano diciamo solo un’ovvietà, ma non facciamo diventare le fibre bianche la spiegazione unica ed indiscutibile di quello che è anche un deficit di cultura sportiva.

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