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Gli anni del professor Guerrieri
Stefano Olivari 01/02/2013
Addio a Dido Guerrieri, grande allenatore di tante squadre fra cui la nostra Mobilquattro-Xerox Milano anni Settanta. Grazie per i pomeriggi che ci ha dedicato trenta anni dopo nella sua casa di Sesto San Giovanni, quando era già malato, per spiegarci la pallacanestro e dettarci una puntata speciale del suo Taccuino. E’ il primo allenatore che abbiamo visto in campo, in un Mobilquattro-Fag Napoli del 1974 al Palalido. E’ stato tante cose, ma gli faremmo un torto facendone un santino o usandolo come pretesto per parlare di noi. Meglio quindi riproporre proprio il taccuino che ci aveva dettato quattro anni fa come prefazione del libro, nostro e di Giorgio Specchia, L’Altra Milano – Dall’oratorio a Jura, la generazione della pallacanestro (non è pubblicità da avvoltoi, il libro è in pratica andato esaurito pochi mesi dopo l’uscita). Professor Guerrieri, grazie.
CUGINI DI CAMPAGNA, di Dido Guerrieri
Taccuino senza schemi, come quelli che scrivevo per il Superbasket di Aldo Giordani. Per raccontare quello che eravamo: bravi, onesti, un po’ ignoranti e incapaci di competere con la nobiltà cittadina. Così erano considerati i giocatori ed i tifosi della Pallacanestro Milano nei suoi anni di gloria, che per quattro stagioni si sono incrociati con la mia vita. La definizione ‘seconda squadra di Milano’ non è esatta, non siamo mai stati una seconda squadra perché abbiamo rappresentato una Milano diversa da quella che per motivi di età continuo a chiamare Simmenthal. La Milano degli oratori, la Milano del minibasket, la Milano delle periferie e dei paesi satellite, la Milano della Brianza operosa che costruisce qualcosa. Non è un caso che parte degli spettatori fosse composta da dipendenti della Mobilquattro e dalle loro famiglie. Ma c’era anche la Milano città, che reclamava un’alternativa e dagli anni Sessanta l’aveva trovata in quella che era nata come All’Onestà. Ci chiamavano ‘cugini di campagna’ per prenderci in giro, ma in fondo la cosa mi faceva anche un po’ piacere. Disprezzo la (presunta) nobiltà ostentata, la mia è una famiglia di ferrovieri e di campagnoli e mi sono sempre vestito senza pretese: qualcuno ha detto che ero l’allenatore ideale per questo tipo di squadra e credo fosse vero. Anche i ragazzi ci tenevano a questa definizione: in maggioranza erano campagnoli poco sofisticati che non si ritenevano né di Milano né di Varese, dove era nata la maggior parte di loro, ma che nella grande città avevano trovato le opportunità e la chimica giuste per far sognare una generazione di innamorati del basket. Non è un caso che da questa tifoseria siano poi usciti tanti giornalisti specializzati: la nostra passione pura contro la difesa ottusa del campanile, di solito base del tifo in tutta Italia non solo nel basket.
La mia storia nella pallacanestro comincia negli anni Cinquanta: dopo la maturità classica a Roma ed il diploma Isef inizio ad insegnare a scuola e ad allenare. Grazie a riviste e contatti americani riesco a proporre qualcosa di nuovo, almeno per l’Italia: dalla ginnastica isometrica alla zone press. Collaboro con Nello Paratore, c.t. della Nazionale, e mi occupo di pubblicazioni per allenatori. Dall’America arriva qualcosa, in maniera frammentaria, ma l’ufficio traduzioni del CONI ci manda roba tremenda. Un giorno nella descrizione di uno schema leggo: ’La guardia spacca il palo’. Vado a prendere il testo originale: ’Guard splits the post’. Divento il traduttore di ‘Triple Post Offense’, la stracitata opera del grande Tex Winter, e sfrutto tante altre idee prese alla fonte. Per primo introduco in Italia il concetto di aiuto e recupero, all’Europeo Juniores. Dove con la Nazionale di Gergati, Benelli, Giusti, Giroldi e Villalta conquistiamo a Zara una grande medaglia d’argento in un ambiente che con gli italiani è a dir poco ostile.
Il rapporto con la squadra raccontata in questo libro è invece iniziato a metà degli anni Sessanta, quando allenavo a Vigevano in serie B e la mia giornata era di questo tipo: al mattino insegnante di educazione fisica, rapido pranzo e poi in macchina i 19 chilometri che mi separavano dal Palalido dove grazie a Guido Carlo Gatti, uno dei grandi di cui si parla nelle prossime pagine, insegnavo minibasket per tutto il pomeriggio. Fino a quando un pullmino della Ramazzotti, sponsor di Vigevano, mi veniva a prendere e portare agli allenamenti della squadra, dalle 19 alle 21. Poi ritorno a casa, con vari mezzi, a notte fonda. Fosca ed io eravamo arrivati da Forlì, dove la vita era decisamente meno cara che a Milano, ma tenevamo duro. Avrei potuto allenare la squadra già nel 1968, quando fui contattato da Garbosi, ma avevo dato a Cesare Rubini la mia parola che lo avrei affiancato come assistente allenatore al Simmenthal e la rispettai. Mi ricordo ancora l’articolo di Oscar Eleni sulla Gazzetta dello Sport, una cosa del genere ‘Il professor Guerrieri si è castrato, invece di fare il capoallenatore in serie A preferisce fare il vice di Rubini’. In un certo senso era vero, ma l’esperienza all’Olimpia è stata comunque preziosa.
Quattro anni in federazione, uno all’Alco Bologna con esonero, la disoccupazione. Papetti, mio ex alunno, e Barlucchi non vogliono più Sales in panchina e me lo fanno sapere: sono disoccupato, avendo lasciato l’insegnamento, e ovviamente preoccupato per motivi molto concreti. Non sono la prima scelta, quindi ci spero e basta. La panchina viene proposta al santone Aza Nikolic, che dopo aver valutato la rosa pronuncia poche parole: ‘‘Qui di buono c’è solo Jura’’. Abituato allo strapotere di Varese, Nikolic pretende un grande mercato e viene quindi salutato. A questo punto la scelta della società cade su Richard Percudani: un grande ritorno, un personaggio amatissimo. Percudani si mette d’accordo su tutto, anche sulla parte finanziaria, e va in America a prendere la moglie: il problema è che questa non ha alcuna voglia di tornare in Italia, gli fa una piazzata e Dick a malincuore rinuncia. Rimango sul mercato solo io, che non ho grandi pretese e appena me lo propongono firmo con la Mobilquattro un contratto per quattro stagioni. Con poca lungimiranza, perché le cifre sono fisse in anni in cui l’inflazione sfiora il venti per cento annuale. Ma intanto sono diventato l’allenatore della Pallacanestro Milano.
Sintetizzare quattro anni di passione e di basket è impossibile, di sicuro non lo si può fare con la retorica dei libri per tifosi del tipo ‘Noi eravamo i migliori mentre gli altri erano cattivi ed antipatici’. La mia squadra aveva un fuoriclasse, Chuck Jura, e alcuni giocatori che la Nazionale l’hanno sfiorata o frequentata, ma la nostra unicità non era di tipo tecnico: semplicemente esistevamo, a dispetto della tradizione e della ricchezza degli altri, ed eravamo orgogliosi di rappresentare qualcosa per migliaia di persone. Nel 1974, quando arrivo io, il presidente è Germani e lo sponsor Caspani. La dirigenza della società, anche prima e dopo di me, storicamente è stata spesso appannaggio di personaggi appassionati, inesperti, confusionari, in certi casi maneggioni, di sicuro mai di nessuno che abbia fatto pensare alla costruzione di una realtà forte. Questo libro parlerà di tutti loro, così come di tutti i giocatori che ho avuto a disposizione: in questo taccuino preferisco proporre solo frammenti, sistema che fra l’altro mi esenta dal trovare un filo conduttore. Del resto che logica ci può essere nel raccontare una squadra che si è sempre sentita provvisoria?
Chuck Jura, vero ragazzo del Nebraska che in Italia come diceva il dottor Blini abitava in fondo alla strada degli imperativi categorici: Turate, Mozzate, Carbonate, Abbiate. Uno dei più forti giocatori mai visti in Italia: gambe corte in proporzione all’altezza, movimenti perfetti, nonostante la magrezza una forza fisica spaventosa. Per dire il rapporto che avevamo, nell’estate del 1977 rimasi a Milano per seguire le travagliate (al solito) vicende della società e non potei essere presente al primo matrimonio di mia figlia. Che non era dietro l’angolo, ma in Colorado, così nell’occasione la parte del padre della sposa fu recitata da Chuck, che ha solo pochi anni più di Chiara. Quale padre non assiste al matrimonio della figlia? Io. Avevamo finito il campionato della rimonta, con un girone di ritorno pazzesco, vincendo a Cantù ed a Varese, c’era stato un cambio dirigenziale e stava per partire l’era del secondo straniero. Non me la sentii di abbandonare la società, sia pure per poche settimane, così al matrimonio mi rappresentarono (se così si può dire) mia moglie Fosca e mio figlio Luca. Anche lui a suo tempo aveva avuto la sua parte: non assistetti alla sua nascita, a Cesena, perché impegnato a Milano in un consiglio del CAF. Accompagnai Fosca e Luca alla stazione di Lambrate (per risparmiare conveniva andare in treno fino in Lussemburgo, poi aereo delle Jeeland Lines fino a Chicago, infine altro aereo per Denver), poi tornai a casa a Sesto San Giovanni. Poche telefonate dagli USA, mentre eravamo in mezzo a trattative per tutti: Bisson quasi preso, Zanatta che forse arriva… Alla fine di quell’estate caldissima prendemmo Serafini, ma intanto mi ero perso il matrimonio di Chiara. Jura era fortissimo e molto attaccato al denaro, un vero professionista: stavamo per ritrovarci a Venezia, ma all’ultimo momento una super-offerta di Celada lo portò a Mestre. Avrebbe meritato di vincere di più.
Il professor Vittorio Blini, chirurgo dell’ospedale San Carlo di Milano, medico della squadra ma anche mio personale. Un appassionato vero, che usava le ferie per andare in ritiro precampionato con noi. Non è mai mancato nemmeno all’ultima delle amichevoli, a costo di spararsi turni di guardia assurdi. Memorabile la sua miopia: un giorno portò Veronesi, colpito ad uno zigomo, a fare una radiografia. Ad un certo punto guardò la lastra e disse: ‘‘Tutto a posto’’. Poi aprì una porta ed entrò in un armadio… Memorabili anche la sua competenza e sangue freddo: una notte, sotto i miei occhi, operò d’urgenza la moglie Barbara per un’ulcera gastrica perforata. Va detto che in panchina si faceva sentire dagli arbitri dieci volte più di me, con frasi non proprio da lord. Quante partite a scopa, nelle trasferte più lunghe: ad un certo punto giocava però sempre una fiori per una picche mandando a monte una partita costruita con pazienza.
Ciccio Vitti, mio assistente per tre anni su quattro: abbiamo condiviso tutto, anche la stanza, quando nella già citata estate 1977 la società mi comunicò che il mio staff doveva cambiare. Mi opposi, però mostrarono una clausola del contratto in cui si precisava che i collaboratori avrebbero dovuto essere ‘di reciproco gradimento’. Mi proposero una lista di nomi e fra questi scelsi Dante Gurioli. Vitti non mi perdonò, credo. Gurioli veniva da due scudetti femminili vinti con il Geas, era l’enfant prodige delle panchine italiane e l’anno dopo divenne il mio successore. Bravissimo tecnicamente, a meno di trenta anni allenava già in serie A ma per scelta non ha voluto allontanarsi da casa e tuffarsi nella precarietà del basket professionistico: conosce tutto e tutti, quando sono in Italia è il mio punto di riferimento ed è forse l’uomo più realizzato che conosca.
I derby, se la memoria non mi fa difetto sette vinti e cinque persi. Uno lo risolse Lauriski all’ultimo secondo, un altro lo vincemmo ai supplementari. Come fosse oggi: due punti sotto, Farina viene atterrato e perde i sensi. Spavento, ma poi torna vivo e batte i due tiri liberi. Supplementari, vittoria. Pippo Faina, sfortunato allenatore del Simmenthal (sì, Cinzano) post Rubini: quattro anni di derby tesissimi. Al Palalido condividevamo lo spogliatoio: io mi arrabbiavo perché lo riempiva di fumo e mi vendicavo usando il suo sapone. La maggior parte dei giornalisti faceva a gara nell’incensare l’ambiente Olimpia ed i suoi esponenti, ma io non me la sono mai presa. Il nipote di un ferroviere non può invidiare un nobile. Né può esaltarsi quando dopo due vittorie di fila viene descritto come ‘il re della zona press’ o ‘l’inventore del basket del 2000’: io per primo so di avere rielaborato idee di altri, anche del mio amico Jack Ramsay. Forse rispetto ai concorrenti avevo solo più voglia di imparare.
Le nostre campagne acquisti, che poi spesso erano campagne vendite. Nell’anno degli oriundi abbiamo giocato senza oriundo, in quattro stagioni abbiamo ingaggiato solo due giocatori che avessero un mercato e nonostante questo siamo stati i soli oltre alle tre grandi dell’epoca (Varese, Virtus Bologna, Cantù) ad arrivare sempre alla poule scudetto. Per sentirsi dire dai propri dirigenti, a mezzo stampa, che a Milano o vinci il campionato o non sei nessuno.
Il nostro ristorante: Da Mico, in via Fara, vicino alla stazione Centrale. Zona poco simpatica: qualche trattoria da non inserire nelle guide turistiche, pensioni a una stella, prostitute di quart’ordine controllate da vecchi magnaccia vestiti in stile anni Venti. Mico era il nome d’arte del toscano Buonamico Buonamici: ho scoperto che metà dei toscani, ma vale anche per i nativi di altre regioni, vive a Milano. Pallido, tendente alla pinguedine, Mico era circondato di fedelissimi camerieri sardi: Giovanni il mio preferito, il più sorridente e svelto. Posto sempre pieno, ma quando arrivavamo noi Mico era sempre abilissimo ad individuare un tavolo in cui stavano pagando il conto. Menù lunghissimo, non l’ho mai letto tutto e ho sempre ordinato lo stesso piatto del mio vicino di posto: in genere penne all’arrabbiata. La domenica sera arrivava tutto il basket italiano e nasceva quello che Giordani chiamava Cenacolo: la Mobilquattro-Xerox al completo o a gruppi, qualche squadra di passaggio, Emilio Tricerri e la sua corte di vecchi collaboratori del comitato, arbitri in quantità. Il bello è che Mico non aveva mai visto una partita in vita sua, ma leggeva ogni riga della Gazzetta e conosceva a memoria anche i tabellini. Il gran momento era verso le undici, quando appariva Giordani con tutta la sua corte. Da lì la clientela non di basket si sentiva a disagio ed iniziava a sfollare: si univano i tavoli e si parlava fino alla una. Poi Mico suonava il campanello e si usciva, sul marciapiede, ad analizzare i massimi e minimi sistemi del basket italiano.
Mi vengono in mente troppe cose e troppe facce. Umberto Bossi, fidanzato con la sorella del nostro Guidali che sarebbe poi diventata la sua prima moglie, che con una bandana in testa urla e fa un tifo folle. I ragazzi che alla fine dell’allenamento tornavano al loro paese, o almeno così mi dicevano: c’era un certo riscontro nel pubblico femminile, non è un caso che oggi siano quasi tutti divorziati. Riccardo Sales, mio giocatore a Vigevano e mio predecessore a Milano: un allenatore straordinario, che ha lasciato tracce negli ambienti più diversi facendo grandi cose sia con la nazionale maschile che con quella femminile. Certi dirigenti che consideravano deludente un quarto posto conquistato con una squadra modesta. I ragazzi che con me sono arrivati in Nazionale, da Giuseppe Gergati a Rodà. Antonucci che era bravino ma non venne mai fuori. Maggiotto che era bravissimo, ma non venne mai fuori davvero nemmeno lui: si innamorò della Baldini, giocatrice del Geas, per lei si faceva da Sesto San Giovanni a Milano, piazza Zavattari, a piedi perché la metropolitana aveva già effettuato l’ultima corsa ed io gli consigliai di fare il metronotte.
Il nostro gioco base: Jura e Serafini in lunetta, il play che passa ad uno degli altri due sui lati mentre Jura taglia verso il canestro oppure lo fa Serafini e Chuck rimane lì per colpire eventualmente dalla media distanza.
Gli scherzi da spogliatoio, spesso con vittima Giroldi.
Il nostro contropiede, con Rodà che lo conduce, passa e va a tagliare per canestri facili.
La nostra 1-3-1, ispirata a quella di Ramsay, che avevo già fatto a Rimini negli anni Sessanta, e che in certe situazioni si trasformava in una 2-2-1 a tutto campo. La zona match up subito dopo i tiri liberi.
Io che nel 1978 mi rendo conto che la squadra non è consistente, che non c’è la volontà di renderla consistente, e che mi lascio andare via. Forse sbagliando.
Non ho mai visto una squadra così lontana dalla retorica, dall’esaltazione acritica e anche da certe logiche provinciali. Per questo è rimasta nel cuore di tante persone e nel mio.
Dido Guerrieri
(Prefazione del libro L’Altra Milano, dall’oratorio a Jura, la generazione della pallacanestro)