Ciclismo
Kwiatkowski, la Polonia che non è nata ieri
Simone Basso 30/09/2014
Premessa di rito, noi che non le sopportiamo: ogni martedì racconteremo un frammento dell’attualità, provando ad andare oltre… Rileggendo il presente con il conforto anche del passato. E una sana nostalgia per il futuro.
Ponferrada consegna l’iride a un campione, uno dei predestinati della linea verde. E regala il primo Mondiale pro di sempre ai polacchi, grande scuola dell’Europa Orientale. Michal Kwiatkowski l’arcobaleno va a prenderselo, meritatamente, prima spremendo la squadra e poi cogliendo l’attimo fuggente, giù da Confederacion. Se l’anno scorso a Firenze, su un tracciato più duro, i reduci della Vuelta fecero (e disfarono) la corsa (Nibali, Rodriguez, Valverde) e Rui Costa – che la preparò in Canada – ne approfittò, stavolta il tobòga iberico ha dimostrato l’aleatorietà di certe convinzioni. La tanto cantata competizione roja, a mo’ di preparazione, non ha inciso. Difatti la rumba è stata dominata, con poche eccezioni (Gilbert, Valverde), da chi ha gareggiato in Nord America, in Gran Bretagna e nel resto d’Europa.
Eppure qualche sospetto alcuni tecnici avrebbero dovuto esibirlo: tre settimane di frazioni bonsai (rispetto al Tour, la Vuelta 2014 era più corta complessivamente di 482,5 chilometri..), disputate con uno svolgimento tattico monodico e in un clima estivo, esaltano il (secondo) picco di rendimento necessario per un circuito come quello di domenica? Sfiancante, insidioso, veloce, privo di rampe di garage (…) e con un meteo autunnale… La rassegna ha poi confermato, per l’ennesima volta, la validità dell’approccio multidisciplinare (soprattutto in età giovanile) all’agonismo. Anche lo stesso Kwiato, mammasantissima annunciato, da junior affiancò la pista alla strada: bronzo in quel di Pruszkow, agli Europei 2008, nell’individuale a punti.
La vernice polacca ci permette di ricordare, al netto dei Kwiatkowski e Majka di oggi (e domani), la tradizione biancorossa nel ciclismo. Il mito fondativo risale al 1956 e alla vittoria storica di Krolak nella Corsa della Pace. Per quarant’anni la cosiddetta Varsavia-Berlino-Praga rappresentò gli ideali politici e sociali del blocco Comecon, con un immaginario che va forse oltre quello dei “nostri” Giro e Tour. Il trionfo di Stanislaw divenne il simbolo di una pulsione antisovietica, quasi un quarto di secolo prima dell’ombrello di Kozakiewicz e di Solidarnosc: la leggenda narra di Krolak in giallo, in un tunnel, chiuso dalla Sbornaja. Stan estrasse la pompa e si fece largo a fendenti sulle schiene dei russi… L’episodio, un pezzo di mitologia della Polonia che fu, è stato smentito dal diretto interessato: in fondo, perchè rovinare una (bella) storia con la verità?
La generazione d’oro irruppe sul finire degli anni Sessanta e si fece egemone nei Settanta. Capotribù indiscusso, Ryszard Szurkowski fu – per almeno un lustro – il migliore dilettante (di Stato) della scena internazionale. Completo, a suo agio su ogni tipo di percorso, a tappe o di un sol giorno, nella Cento e nel ciclocross, firmò un’epoca. I quattro trionfi alla Corsa della Pace, un primato nell’evo più autentico della manifestazione, devono essere affiancati all’exploit irripetibile della doppietta mondiale al Montjuich (1973). Quando, in pochi dì, si impose nell’esigentissima cronosquadre e nella prova in linea. L’altro fuoriclasse di quel gruppo era Szozda, rouleur straordinario, senza dimenticare i Mytnik, Kowalski, Lis, Nowicki… Il testimone passò poi, al crepuscolo del decennio, ai Sujka e ai Lang. Quest’ultimo si aggiudicò l’argento olimpico a Mosca 1980: primo degli esseri umani, al cospetto di un mostruoso Sergei Soukhouroutchenkov, sbarcò (un anno e mezzo dopo) in Italia per correre da professionista. Cesare (passista de luxe) aprì la porta ad altri talenti, al pari del potentissimo Lech Piasecki e di Zenon Jaskula.
Col biondo, che in quota BG-MG in pieno robosport (1993) salì sul podio del Tour de France, compagno di Cento, evolveva Joachim Halupczok. Potenzialmente, a nostra memoria, uno dei fuoriclasse più clamorosi ammirati nei puri. Giacomino era della Slesia e appena ventènne si mise al petto l’argento a Seul 1988 (nella competizione a squadre). Conoscemmo la sua incredibile possanza al GP Liberazione di Roma, la stagione successiva, quando si disfò del plotone con una progressione spaventosa. Achim aveva uno stile peculiare, pedalava poderoso nemmeno calciasse il mezzo. Nel 1989 vinse ovunque, l’apice a Chambery, al Mondiale, su un percorso altimetricamente impietoso: tre giorni dopo la Cento… A due giri dal termine fu un allungo di Bortolami ad ispirarlo. Uno spettacolo: relegò a quasi tre minuti i galletti Pichon e Manin. Quel pomeriggio, sul palco delle premiazioni, ci sembrò di scorgere il ras dei Novanta. Condivise lo stesso pensiero Ernesto Colnago, che sborsò una bella cifra (120 milioni di lire all’anno…) per accapararselo. L’esordio al Giro 1990 fu promettente e sfortunato: Halupczok dovette ritirarsi, in maglia bianca, quinto nella generale a sei tappe da Milano, a causa di una tendinite. Dopo le speranze, giunse l’autunno. Quell’atleta fuori dal comune aveva un cuore enorme, ipertrofico, che ahilui divenne “matto”. I medici (e l’aritmia cardiaca) lo fermarono per quattro mesi nel 1991; definitivamente nel 1992. Il 4 Febbraio 1994 a Opole, durante una partitella a calcetto con gli amici, Giacomino morì d’infarto: l’altroieri, vedendo la bandiera polacca, abbiamo pensato a lui e alla sua storia amara, che sa di paradiso perduto.
Simone Basso, in esclusiva per Indiscreto (è vietata la riproduzione, anche parziale, di questo articolo senza autorizzazione dell’autore)