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La provvidenza rossa, vita nel PCI prima della fine

Stefano Olivari 03/11/2016

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IlLa provvidenza rossa Partito Comunista Italiano non esiste più dai tempi di Occhetto, ma ancora oggi è difficile raccontarlo senza per forza voler dimostrare una tesi. Nel PCI fino al crollo del Muro di Berlino potevi trovare quelli che ora chiameremmo progressisti, ma anche alfieri della conservazione più reazionaria, nel pubblico e nel privato. C’era il mito del segretario infallibile, che come santino ha spesso condizionato anche gli avversari (basti pensare al modo acritico in cui ancora si parla di Berlinguer), ma anche una dialettica interna in netto contrasto con i ritratti di Stalin che campeggiavano in molte sezioni ben oltre la morte del Piccolo Padre.  C’era un’elaborazione del marxismo ma anche un’idealizzazione della società industriale che indubbiamente ha fatto del bene all’Italia (nessuno di sinistra e nemmeno di destra si sarebbe esaltato all’idea di diventare ‘La Florida d’Europa’). C’era il mito della Resistenza, ma anche una retorica pacifista (i partigiani, quei pochi reali, tutto erano tranne che pacifici) e terzomondista da elìte kalergiana. C’era un localismo da Peppone anche fra chi la pensava alla stessa maniera (i comunisti di Bologna ancora oggi sostengono che quelli di Reggio Emilia fossero i più ottusi e convinti, non si sa in base a quale parametro), ma anche un’attenzione quasi commovente alle situazioni di paesi lontani. C’era l’antifascismo militante, ma con i fascisti c’erano anche linguaggio e nemici comuni (a noi quasi tutti simpatici, quei nemici comuni). Con i ‘ma anche’ la piantiamo qui, perché la storia del PCI non si può sintetizzare in un post.

In un bellissimo romanzo, uscito quest’anno per Sellerio, ci è riuscito invece Lodovico Festa. Che conoscevamo, di nome, come scrittore e fondatore del Foglio insieme a Giuliano Ferrara, ma non sospettavamo fosse stato negli anni Settanta e Ottanta dirigente del PCI milanese. In La provvidenza rossa Festa utilizza una trama piuttosto esile, l’uccisione di una fioraia attivista del PCI sezione Sempione nella Milano dell’autunno 1977, con relative indagini parallele della Polizia e del partito, ma perfetta per raccontare l’articolazione territoriale, i rapporti interni ed esterni, le attività e i non detti di un partito che era soprattutto una gigantesca e quasi perfetta macchina di organizzazione del consenso. Dalla vita di sezione a quella di federazione, passando per le mille cariche e organi dalle funzioni misteriose (ma più erano misteriose e più facevano paura) anche per i militanti, gli iscritti si lasciavano abbracciare dal partito e in molti casi riuscivano a concepire le loro vite soltanto in relazione ad esso. Valeva sia per i funzionari del PCI stesso, ovviamente, sia per chi aveva una carriera esterna: rimaneva per sempre un risorsa a disposizione del partito, inserita nella vita economica e culturale del paese, quindi ancora più preziosa. Occupazione, più che egemonia.

Già all’inizio del libro si scopre che l’arma usata per l’uccisione della fioraia di via Procaccini, Bruna Calchi, apparteneva a un arsenale tedesco sequestrato dai partigiani a fine conflitto e nascosto nella cantina della sezione, quindi tutta l’investigazione del partito è volta ad anticipare quella della polizia e a togliere implicazioni politiche al fatto, a meno di non poter scaricare la colpa su qualcuno di destra. Ma l’aspetto politico è in questo romanzo meno importante di quello organizzativo e quotidiano. Il protagonista è affascinante: il grigio ma intelligente ingegner Cavenaghi, funzionario di partito abituato a gestire situazioni ai confini della legalità e bravo esecutore di ordini mai impartiti con chiarezza, in modo da poter sempre trovare una italianissima via di uscita. Festa è in certi punti geniale nel tratteggiare i tic anche mediatici dell’epoca (il poliziotto ‘democratico’, la ‘risposta alle provocazioni’, la figura messianica del segretario, eccetera) e la forma romanzo gli permette di essere credibile sia come nostalgico sia come critico di un partito che basato sul folle equilibrio fra partecipazione democratica formale e aspirazioni rivoluzionarie che nel 1977 erano altrettanto formali. Sullo sfondo il craxismo (l’anno prima Craxi era diventato segretario del PSI al Midas) aleggiante a Milano e in Italia, di cui Cavenaghi coglie i segnali più nella società, e addirittura dentro se stesso, che in una politica ferma ai blocchi della Guerra Fredda.

Per rendere meno arida la recensione inseriamo come al solito i fatti nostri. Di recente abbiamo partecipato a un dibattito in una sezione del PD fra le più periferiche, nella parte di quelli di destra reaganiana tipo Alex Keaton (missione compiuta con gioia), ed abbiamo trovato anche nel 2016 e con tutt’altri argomenti quei meccanismi da chiesa che Festa racconta bene. Il problema è che questa, così come altre chiese italiane, non ha più una religione ma soltanto blande simpatie e antipatie.

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