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L’arlecchinata degli Harlequins

Paolo Sacchi 25/02/2017

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Carlo Goldoni era un genio. Sottovalutato, verrebbe da aggiungere, per paradosso. Prendiamo l’Arlecchino servitore di due padroni, ad esempio, il cui valore va ben oltre la Commedia dell’Arte. Giordano Bruno Guerri la considera un’opera capitale della cultura italiana moderna. Ne ha scritto anche Franco Ferrucci. L’ha citata quale “Testo infinitamente superiore a se stesso, come accade ai capolavori che sorgono da profondità collettive” nel suo Nuovo discorso degli italiani pubblicato nel 1993. Più che maschera di Carnevale o personaggio teatrale Arlecchino – o meglio, Truffaldino, dal nome originale – almeno dal 1745 interpreta, se vogliamo, la quintessenza dell’italiano medio, se non dell’intera umanità media. Un’esistenza che ruota intorno alla preoccupazione e alla disperata, intima, vocazione di doversi sentire il più furbo. Scaltro, lamentoso per interesse, accondiscendente con i potenti e arrogante con i più deboli. Superficiale quanto assuefatto alle menzogne, che racconta anche quando non ne avrebbe la necessità: proietta sugli altri la propria diffidenza e incarna uno scetticismo quasi assoluto. Una cosa pare certa: dopo quasi tre secoli dall’uscita dell’opera, Arlecchino continua a lottare e vivere insieme a noi. O comunque, tra di noi. E riesce (quasi) sempre a cavarsela.

Morrissey sosteneva che le persone si comportano allo stesso modo, ovunque. Anche Truffaldino dunque, in fondo, non è un’esclusiva italica. Anche nello sport e anche nei contesti più impensabili. Prendiamo il rugby, ad esempio. Qui la lealtà è un dogma (per non dire un mito) assoluto, in cui l’onestà dei protagonisti sarebbe all’ennesima potenza. Nel mondo della palla ovale imbrogliare sembra inconcepibile. Invece è accaduto, raramente ma è accaduto. E manco a farlo apposta lo scandalo più grande mai avvenuto ha origine proprio dal club il cui nome e la divisa s’ispirano al più noto personaggio della Commedia dell’Arte. Un nome scelto a caso, puntando il dito sul vocabolario lungo l’elenco all’altezza della lettera H. H come Harlequin, ovvero Arlecchino. Con questi strani presupposti nel 1870 è stato fondato quello che oggi è una delle più celebri squadre al mondo. Una scelta determinata da una necessità che – involontariamente – rientra nel pieno spirito del personaggio goldoniano. Quello, se vogliamo di stile democristiano, di non scontentare nessuno.

Tutto ha origine dall’Hampstead F.C., fondato quattro anni prima. Con il successivo allargamento della base sociale sul territorio era emersa l’esigenza di non identificarlo geograficamente troppo, con il nome della specifica località a nord di Londra, allora parte della della contea del Middlesex (oggi scomparsa, da più di 50 anni incorporata nella Grande Londra). Fu deciso però di mantenere l’acronimo H.F.C. e da qui la scelta – casuale – del nome. Non a caso invece vennero scelti i colori sociali: in omaggio al costume della maschera italiana, la divisa da gioco venne ridisegnata a quarti multicolori rossi, azzurri, grigi e marroni. In realtà qualcuno non apprezzò, tanto da organizzare una scissione (…) con la nascita – anche qui, in pieno spirito ‘italiano’ – di un altro club (gli Wasps) formato dai dissidenti dei Quins. Torniamo però ai nostri protagonisti: dopo aver cambiato quindici impianti nei loro primi quarant’anni di storia, dal 1963 giocano definitivamente nel bellissimo Twickenham Stoop, poco lontano dall’omonimo e più prestigioso stadio nazionale del rugby inglese.

Vittorie e trionfi ne hanno segnato la storia gloriosa ma, otto anni fa, anche una clamorosa figuraccia. Un’arlecchinata vera e propria: l’utilizzo di un liquido rosso per simulare sangue finto, un po’ come si fa quando ci si maschera a Carnevale. Unico problema che in questo caso non ha fatto ridere nessuno. Nella fase finale di un incontro di Heineken Cup del 2009 contro il Leinster, un giocatore degli Harlequins – Tom Williams – esce per una ferita alla bocca. Negli sport professionistico non può restare in campo chi perde sangue. Lui ne sta perdendo molto. Forse pure troppo, a dirla tutta. Esauriti i cambi, il regolamento prevede che un giocatore uscito dal campo per scelta tecnica possa rientrare per sostituire un giocatore che sta sanguinando. Al posto di Williams entra il calciatore titolare che era stato sostituito in precedenza. Fatalità, proprio mentre i Quins stanno cercando di conquistare la possibilità di calciare tra i pali: sotto di un punto, si erano trovati senza un giocatore dal piede buono. Così scatta una messinscena: Williams entra in campo e pochi minuti dopo, al primo contatto, stramazza a terra. Il fisioterapista del club si avvicina a lui per portarlo fuori. Sanguina vistosamente, dalla bocca, dunque la sostituzione – anche con un compagno che ha già giocato – ha il via libera. Nonostante tutto, il neo entrato dal piede vellutato non riesce a realizzare il drop della vittoria e i londinesi escono comunque sconfitti per sei a cinque al termine di una gara tiratissima.

Come Arlecchino potrebbe ben insegnare, si può essere più furbi di tanti, ma non di tutti. Il tecnico della formazione di Dublino ha intuito che qualcosa di strano. Vuole capire come si è fatto male Williams, perché nessuno dei presenti in campo ha notato un impatto così violento da generare tutto quel sangue. Giù la maschera, la carnevalata viene svelata. Le immagini parlano chiaro: è evidente che il giocatore prenda qualcosa dalla tasca dei pantaloncini e la metta in bocca. È una capsula di liquido color rosso, preparata per l’evenienza. Tutto studiato a tavolino. Al punto che, per rendere la storia più verosimile, negli spogliatoi il fisioterapista avrebbe addirittura inciso il labbro del giocatore col bisturi. Incredibile. La lega non perde tempo: indagine veloce e condanne in linea con il reato a tutti i protagonisti, diretti e indiretti. Carnevale a parte, non sempre la si fa franca quando ci si maschera da Arlecchino.

Paolo Sacchi, da Londra

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