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Giochi Olimpici

L’importante è vincere, per Astilo anche di più

Stefano Olivari 26/08/2016

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I Giochi Olimpici non ci bastano mai e in totale crisi di astinenza da Rio abbiamo letto un libro uscito quest’anno per Feltrinelli, che ci ha incuriosito perché mette a confronto i Giochi di oggi con quelli del passato greco. L’importante è vincere – da Olimpia a Rio de Janeiro fin dal titolo fa capire che quello che per convenzione definiamo ‘spirito olimpico’ è una bufala, nella migliore delle ipotesi un’invenzione dei Giochi moderni e soltanto ai tempi in cui lo sport era praticato da una sola classe sociale. L’indimenticabile allenamento di Lord Lindsay in Momenti di Gloria, con i bicchieri di champagne sugli ostacoli, può rendere l’idea. La parte antica del libro è curata dalla grecista Eva Cantarella, quella moderna dal giornalista Ettore Miraglia e non c’è dubbio che dal punto di vista del contenuto stravinca la prima, non fosse altro che perché di Zatopek o Carl Lewis si è scritto mille volte di più.

Paradossalmente erano molto più moderni i Giochi (Olimpiade è il tempo fra un’edizione e l’altra) dei greci, nel senso lì il professionismo degli atleti non era l’evoluzione di un idealismo originario ma parte integrante della manifestazione. Non che i Giochi distribuissero premi: lì si gareggiava per la gloria, ma una gloria poi da monetizzare in mille situazioni. Dall’atletica al pugilato, passando per il pancrazio (pugilato e lotta, tipo gli odierni ultimate fighting) e altri sport, in campo scendevano soltanto uomini (lo sport femminile esisteva, ma non ai Giochi di Olimpia) che facevano quello di mestiere. Non solo: l’attenzione per quello che oggi chiamiamo medagliere era estrema, al punto che i ‘passaporti’ erano tranquillamente in vendita. Esempio: il leggendario crotonese Astilo, l’uomo più veloce del mondo, che a un certo punto per soldi iniziò a gareggiare per Siracusa. Insomma, il Qatar che ingaggia i keniani o i paesi europei (anche l’Italia ha preso questa china) dalla naturalizzazione facile ci fanno ribrezzo, ma il fenomeno non nasce oggi.

I Giochi propriamente detti duravano non più di una settimana, ma perché i partecipanti uscivano da una durissima selezione: i probabili olimpici dovevano recarsi a Elide (Olimpia si trovava nel suo territorio) e allenarsi un mese sotto gli occhi dei giudici, poi affrontare ognuno nella propria disciplina una sorta di torneo preolimpico e infine partecipare ai Giochi. La gara più antica (prima edizione 776 avanti Cristo) era la corsa di velocità nello stadio, il cosiddetto stadion: un giro che non era di 400 metri metri ma di 192. Edizione dopo edizione ci sarebbero state aggiunte, di specialità atletiche e di altri sport: lotta, pugilato, pancrazio, equitazione, corse sui carri, pentathlon che in comune con il pentathlon di oggi ha soltanto la gara di corsa, eccetera.

È interessante notare che nella raffinata cultura greca vincere era un valore in sé e il semplice ‘partecipare’ (al di là del fatto che la famosa frase non fosse di De Coubertin: nel libro si sostiene invece di sì ed è un errore) nemmeno era concepito. Gli ideali di bellezza disgiunti dal valore, non necessariamente sportivo, portavano anzi a giudicare in maniera ancora più negativa i deboli, gli sfaticati, gli inconsistenti. L’etica greca, di cui spesso si parla per giustificare una società di parolai che vivono di debito pubblico e ruderi del passato, era in realtà di tipo ultracompetitivo. Il prevalere sugli altri, non soltanto nello sport, un valore rispettato. Forse nemmeno chi ha fatto il liceo classico, magari facendosi esonerare dalle ore di educazione fisica, sa che in origine al ginnasio si faceva unicamente sport e che soltanto nel corso dei secoli si sarebbero aggiunte attività culturali. Un’idea poi assorbita dalla civiltà romana nella sua epoca migliore, prima di degenerale nello sport-spettacolo fine a se stesso.

LimportanteèvincereL’operazione di De Coubertin fu quella di recuperare la simbologia olimpica ma adattandola a quello che lui, francese, riteneva il modello educativo migliore, cioè quello inglese: lo sport non per vincere o per partecipare, né tanto meno per fare spettacolo, ma lo sport per formare giovani e in generale un classe dirigente forte (il barone imputava alla leggerezza delle classi dirigenti francesi le disfatte contro i prussiani, in particolare quella di Sedan). L’insistenza sul dilettantismo, oltre i confini dell’ipocrisia, nasceva proprio da questo: lo sport come educazione e forma mentale, per poi fare altro nella vita. Il libro spiega molto bene questo passaggio, ma cade un po’ quando si mette a fare paralleli fra campioni del passato e del presente dello stesso sport (Teogene-Stevenson, Crissone-Bolt, Milone-Karelin…) e cade ancora di più quando compila una sorta di guida per Rio. Non suggerisce alcuna conclusione, anche perché non ci sono conclusioni da trarre: ognuno vive nel suo tempo e i Giochi, antichi e moderni, sono stati un’invenzione geniale.

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