Basket
L’ultimo tiro di Bob Lauriski
Stefano Olivari 05/11/2014
Bob Lauriski è morto a 63 anni, probabilmente per un infarto, nella sua Logan, Utah. Non era il paese in cui era nato, ma quello in cui aveva frequentato gli ultimi due anni high school diventando un mito assoluto a livello locale con il soprannome di The vulture (l’avvoltoio): Mister Basketball dello Utah nel 1969 e corteggiatissimo da tante università, scelse la Utah State di coach LaDell Andersen (che di lì a poco avrebbe guidato gli Utah Stars della ABA), che ha la sua sede proprio a Logan. Anche al college fece molto bene, al punto che in tempi recenti un altro Aggie, Spencer Nelson (in Italia visto a Treviso, Fortitudo Bologna e l’anno scorso nella Siena di Crespi), è stato paragonato a lui dai media del posto.
Ala di due metri scarsi, poco dinamico ma buon rimbalzista e clamoroso tiratore, Lauriski era fortemente caratterizzato: il classico mormone bianco che diventa personaggio di culto, evocando l’America di una volta (il bello è che questo meccanismo valeva anche nell’America di una volta). Fuori dai radar sia dell’NBA (scelto al numero 96 da Golden State, nel periodo in cui per un bianco era dura sopravvivere ai camp) che della declinante ma meravigliosa ABA, in Italia arrivò a metà anni Settanta in maglia Riccadonna: una delle squadre che Jim McGregor portava in giro per l’Italia d’estate dando spettacolo ovunque e procurando ingaggi (con commissione per il coach) a quasi tutti i suoi componenti. Lauriski diventò così nel 1975 il primo straniero nella storia di Rieti (all’epoca era consentito un solo non italiano per squadra), sponsorizzata Brina. Nel 1977, con regole cambiate, diventò il secondo straniero della Xerox (in quelle stagioni la Pallacanestro Milano era la prima squadra della città, poi ridiventò la seconda e adesso è sprofondata nelle minors) raggiungendo Chuck Jura che era in loco dal 1972: due stagioni memorabili, la prima con Guerrieri allenatore e la seconda con Gurioli, che gli valsero un soprannome di ‘Morse dei poveri’ che ci stava tutto anche se rispetto al fuoriclasse di Varese tendeva a scomparire nei momenti chiave delle partite (del resto era ‘dei poveri’). Con qualche eccezione, perché fra i suoi tanti tiri dalla parabola perfetta e morbida il più famoso è senz’altro quello della vittoria in un derby.
Ala piccola come negli anni Settanta erano le ali piccole, il suo migliore amico nel mondo del basket era probabilmente Jim Boatwright: compagno a Utah State e poi protagonista nelle prime due Coppe dei Campioni vinte dal Maccabi Tel Aviv (1977 da americano con una finale clamorosa contro Varese e 1981 da israeliano naturalizzato, finale con la Sinudyne Bologna). Lo stile di vita di Lauriski fuori dal campo era diverso da quello di Jura, ma diciamo che i mormoni osservanti erano e sono un’altra cosa. Dopo Milano, un ingaggio svizzero nel Momo Mendrisio e poco altro, prima di tornare a Logan a collaborare con la sua vecchia high school, girare per i parchi con gli amati labrador (altra super-passione era il ballo, la madre aveva una scuola di danza) e a intraprendere un business nel campo della pesca insieme al suo vecchio coach Kohn Smith. Lo diciamo? Lo diciamo. Ci manca.