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Mai perdere l’amore (per la musica) – Intervista a Giampiero Artegiani
Paolo Morati 09/02/2015
Da sempre riteniamo che quando si parla di musica si dia troppo poco spazio agli autori, mentre l’attenzione è tutta focalizzata sul volto e la voce che ne porta l’opera sul palco, facendola propria. Un esempio chiaro è quello di Perdere l’amore, grande canzone italiana in tutto e per tutto con la quale Massimo Ranieri trionfò al Festival di Sanremo del 1988 forte anche di un’intensa e magistrale interpretazione. Uno dei suoi autori è Giampiero Artegiani, compositore, paroliere e per un breve periodo anche direttamente cantautore, nonché membro dei Semiramis, band progressive degli anni Settanta ricostituitasi di recente. In questa lunga intervista ripercorre per Indiscreto la sua storia e non lesina critiche all’odierno scenario autorale. Non mancano aneddoti e rivelazioni riguardanti la sua esperienza sul palco e dietro le quinte. Quasi un’autobiografia, più che un’intervista. È lunga, ma vale davvero la pena di leggerla perché Artegiani ha moltissimo da dire e si può permettere il lusso di essere sincero.
Ci puoi raccontare qualcosa in più della tua formazione musicale? Quando hai iniziato a suonare e hai pensato di poter diventare un autore e cantante? Che tipo eri da ragazzo?
Sono nato a Roma nel 1955, in un quartiere chiamato Centocelle e in un comprensorio di case popolari talmente malfamato che neanche la polizia osava entrarci. La mia fortuna è stata quella di avere una famiglia normale. Mia madre, Edera, faceva la sarta, lavorava in casa e mi teneva d’occhio. Alessandro, mio padre, lavorava negli stabilimenti di Cinecittà e, certe sere, prima di cena, prendeva il suo banjo-mandolino, quattro corde doppie, suonando marcette e canzoni del suo tempo. Rimanevo incantato… Dovevo imparare anch’io a suonare quelle canzoni. La casa era piena di vecchi spartiti : Tico Tico , Speranze perdute, Vecchia Roma… Sono del segno zodiacale del Toro e quando mi metto a testa bassa non c’è muro che tenga: imparai! Le mie dita da ragazzino di sette anni soffrivano su quelle corde, ma mi feci i primi calli e diventai bravo a suonare e leggere la musica da solo. Era il 1962… La musica italiana suonava in tutti i mangiadischi e anche in quello di mia sorella Antonella che ha sei anni più di me. Passavo ore ed ore ad ascoltare Perry Como, Neil Sedaka, Petula Clark, Gene Pitney. E Morandi, Mina, Ranieri, Celentano, Vianello… Mi ricordo un brano musicale dei Los Indios Tabajaras che suonavano la stupenda Maria Elena (chitarra classica e melodia meravigliosa ) e tutte le più belle canzoni italiane degli anni Sessanta, cercando di impararle, di capire i testi… A quel punto il vecchio banjo non mi bastava più, ci voleva una chitarra. Non senza sacrifici, dopo mille piagnistei, i miei mi comprarono una Excelsior: 9 mila lire di felicità! Imparai, da solo, tutti gli accordi e tutte le canzoni di quell’epoca. Mi confrontavo con gli altri ragazzi del quartiere più ‘vecchi’ di me che già suonavano per scoprire qualcosa in più sulle tecniche, sui rivolti, sulle scale… Se m’innamoravo di una canzone, anche del Festival di Sanremo, che seguivo incollato alla tv, prendevo il tram, andavo al centro di Roma per comprarmi lo spartito nel negozio Ricordi, di Piazza Venezia e tornavo a casa eccitato… Non vedevo l’ora di scoprire l’accordo che mi mancava e che non capivo. Era una 5+, che stava sulla canzone : Un’ora fa, di Fausto Leali…, e su Settembre, di Peppino Gagliardi… E poi, come un fulmine a ciel sereno arrivarono i Beatles… e il mondo della musica cambiò. Ma poi arrivò l’Agosto del ’69, Woodstock… Hendrix, Cocker, Ten Years After… e ancora, tutto cambiò. Quella fu una generazione di apostoli dell’amore e della musica, che non chattava, non postava, non twittava… suonava! E suonando arricchiva il mondo e manifestava le proprie idee di pace, contro quell’eterna, inutile guerra in Indocina. A quel tempo se non suonavi eri fuorigioco, come non avere uno smartphone oggi. E noi ascoltavamo, imparavamo e suonavamo, suonavamo, suonavamo… il resto non contava niente. Così, quel ragazzo un po’ introverso e pensieroso, ma leale e di parola (regole insegnate dalla strada e da quegli amici pericolosi ma leali e di parola ), si salvò, e anziché prendere la strada della malavita, come successe a molti di quel tempo e di quel quartiere, prese lo svincolo più importante della sua vita: la musica.
Semiramis, di cui hai fatto parte insieme a Michele Zarrillo, è una band progressive che ha pubblicato un unico album intitolato Dedicato a Frazz e particolarmente apprezzato dai cultori del genere. Si parla dei primi anni Settanta, eravate ancora giovanissimi, eppure la casa discografica scommise su di voi. Si può dire che eravate dei fuoriclasse? Quali sono i tuoi ricordi di quel breve periodo, come è cominciato e perché si è chiuso e che cosa ti ha lasciato in termini di background per il prosieguo della carriera?
1970. Arrivarono la mia prima chitarra elettrica con ampli e la prima band: Venus! Ore e ore di prove suonando solo quella canzone, in una stanza che ci affittò la sede della Democrazia Cristiana di via Anagni. Poi, all’Istituto Tecnico Giorgi, incontrai Paolo Faenza, che suonava la batteria. Altra band, altre cantine, altri brani: Living Loving Maid… Heartbreaker… Mobydick… Led Zeppelin, Black Sabbath, Ten Years After, Grand Funk Railroad, Zappa… Primi festival rock di periferia… Quel quartiere di Roma era una fucina di musicisti. Anche Michele Zarrillo, allora 15 enne, abitava lì e suonava con un altro gruppo. Lui era un vero fenomeno con la chitarra. Quella band si sciolse e, dopo vari cambiamenti, Michele entrò in un’altra con Maurizio, suo fratello che suonava il pianoforte, con Marcello Reddavide al basso e Memmo Pulvano alla batteria. Quest’ultimo lasciò la band dopo una serie di concerti, incluso Villa Pamphili ’72. Il suo posto lo prese Settimio Corà. Fu allora che Marcello Reddavide mi propose di entrare in quella band come chitarrista acustico. Accettai. Settimio litigò con la band ed io proposi il mio amico Paolo Faenza che accettò e fu accettato. Così nacquero i Semiramis di Dedicato a Frazz. Ognuno di noi portò le sue esperienze musicali e ci fondemmo magicamente, per una strana alchimia che non saprei spiegare. Provavamo tutti i santi giorni per 4 o 5 ore al giorno nella cantina dei fratelli Zarrillo. Ampli rigorosamente Marshall… a tutto volume! Creavamo senza porci obbiettivi precisi: “Bella questa frase… bello questo tempo… bello questo arpeggio… aggiungi l’organo… fai questo contrappunto con il basso…”, le idee scaturivano un po’ da tutti, come una fontana in piena. Ognuno aggiungeva, suggeriva, creava liberamente… Marcello ci portò una storia scritta che riguardava un personaggio psicopatico in eterno conflitto con il mondo… ma non aveva un nome. Decidemmo di unire le iniziali dei nostri cognomi e così nacque il nostro Concept Album: Dedicato a Frazz. La sera, non contenti, ci riunivamo a casa di Paolo, che era quello che comprava i dischi e le novità, e lì ascoltavamo i King Crimson, Emerson Lake & Palmer, Genesis, Gentle Giant, Mountain… di tutto e di più. Ma il pomeriggio seguente, giù a provare ancora… e io persi un anno di scuola. Facemmo un sacco di concerti… Politeama di Palermo, Palasport di Roma e Torino, Be In di Napoli, Festival Rock di Nettuno… supportati , da Robert Cunningham, nostro produttore di allora.
Mia madre ci cucì gli abiti di scena, mio padre ci forni un manichino a grandezza naturale che prese nei magazzini di Cinecittà che rappresentava Frazz, e ci costruì una forca perché Frazz veniva impiccato (ossia, si impiccava nel momento in cui la storia lo richiedeva. Io lo rappresentavo sul palco. Al momento giusto io, vestito come il manichino, sparivo di scena e si alzava la forca. Il pubblico pensava fossi io… ma poi rientravo in scena e l’applauso era assicurato. Portammo in giro quello spettacolo in tutta Italia. Maurizio Salvadori, che aveva appena fondato la Trident Records, volle fare un album con il nostro spettacolo. Registrammo alla Regson di Milano, in Porta Ticinese, su un 8 piste: tutto in diretta! Mixammo alla bell’e meglio (il fonico non era un genio nel Prog) e il lavoro uscì sul mercato: 33 giri / stereo 8! Continuammo a suonare per un po’, finché Marcello si staccò per via del servizio di leva. Anche Maurizio lasciò il gruppo e noi restammo in tre. Ci affidarono una cantina in via del Boschetto e sostituimmo Maurizio con il giovane Julio Ferrarin, oggi quotato arrangiatore e produttore di Dance, e Tony Massarutto prese il posto di Marcello. Mia madre cucì due nuovi abiti…. Ma questa band durò poco. Il giocattolo era rotto e rincollarlo non fu possibile. Quella fu la nostra scuola per impiantare una vita sulla musica. Imparammo che per ottenere qualcosa bisogna lavorarci con costanza, perseverare, riprovare, migliorare, insistere, tutto con estrema curiosità e umiltà. Io e Michele abbiamo continuato. Paolo si è perso tra i suoi ‘tappeti’ per una trentina di anni. Ora ha ripreso e suona con varie band nei locali di Roma. Lui ci ha spinto a riformare i Semiramis per il piacere di risuonare quella musica. Io e Maurizio abbiamo risposato la causa e abbiamo rimontato il nostro Dedicato a Frazz insieme ad altri musicisti, più giovani di noi, ma bravissimi: Antonio Trapani (chitarra elettrica), Daniele Sorrenti (tastiere),Vito Ardito (voce e chitarra acustica), Ivo Mileto (basso elettrico). Quella esperienza mi ha insegnato a vivere, mi ha fatto crescere come nessuna scuola di vita e di musica avrebbe potuto fare. Lì ho capito la differenza che c’è tra eseguire e interpretare, e che la musica non è chiusa dentro quei pallini neri scritti su uno spartito…ma è nel cuore di chi li legge, ne capisce il senso, e poi la suona.
Conclusa l’esperienza Semiramis che cosa hai fatto? La prima immagine che ho in mente di te è quella della partecipazione vincente a Saint Vincent con Il sogno di un buffone nel 1983. Come sei arrivato a proporti come cantautore e a lanciare quel brano, che introduceva uno stile comunque molto personale?
Chiuso il capitolo Semiramis, nel ’75, mi sono diplomato e ho accontentato i miei. Poi ho rifiutato posti di lavoro sicuri per continuare la mia strada: ho scommesso su di me e che avrei vissuto di musica. Una scelta azzardata e un po’ incosciente, ma non potevo fare diversamente. Ho iniziato a propormi come insegnante di chitarra e di musica in varie scuole. L’unica che mi rispose fu una scuola per bambini handicappati. Ho accettato la sfida e ho iniziato ad avvicinarmi alla musicoterapia. Una branca della musica che mi ha sempre affascinato. Questa esperienza l’ho condivisa con Paolo Faenza, il batterista dei Semiramis, che mi seguì in quest’avventura affascinante e nuova per noi e per la didattica italiana. In quegli anni, di musicoterapia se ne sentiva parlare appena… probabilmente siamo stati tra i primi in Italia. Avevamo 5 classi di bambini diversamente abili. Applicavamo la musica a seconda dei bisogni psichici e fisici di ogni bambino per cercare di sollecitare e migliorare il loro handicap, confrontandoci e lavorando in team con psicologi, fisioterapisti, logopedisti, per usare questo nuovo mezzo di espressione e comunicazione a vantaggio delle disfunzioni dei bambini. Dopo questa bella parentesi di 2 anni, iniziai a prendere coraggio per affrontare il palco da solo. Prima scrissi alcune canzoni insieme a Marcello Marrocchi, che nel ’79 fu un produttore di una band extrapop che fondammo io e Paolo: i Carillon. Realizzammo 3 singoli per la EMI, e poi ci sciogliemmo. Però fu in quella band che iniziai a cantare come solista e presi coraggio e coscienza della mia voce. Intanto iniziai anche a scrivere per altri artisti: Franco Califano, Nini Rosso, i Collage, e nel frattempo iniziai a scrivere anche per me e a pensarmi come cantautore. Realizzai una serie di provini. Marrocchi li propose alle varie case discografiche. Nel 1982 registrai per la Lupus Ricordi il mio primo album Giampiero Artegiani. Avrei dovuto partecipare al Festival, ma (sbagliando ) preferimmo farlo uscire in primavera. Partecipai alla prima edizione del Premio Rino Gaetano, con la canzone Il sogno di un buffone, e vinsi. Poi partecipai al Festival del Pianobar di Fiuggi, e vinsi… e poi feci una lunga gara a Domenica In, con concorrenti del calibro di Zucchero, Sergio Caputo, il Gruppo Italiano… Era una lunga gara a eliminatorie per partecipare a Saint Vincent Estate ’83: vinsi la gara televisiva e poi vinsi anche quell’edizione di Saint Vincent. Le radio suonavano le mie canzoni… la mia carriera da cantautore era iniziata bene!
Da lì hai poi spiccato il volo verso Sanremo del 1984. La canzone era Acqua alta in piazza San Marco. Gran bel pezzo melodico, con un insieme di archi e un crescendo finale. Eppure le giurie ti eliminarono… Due anni dopo ci riprovasti con …e le rondini sfioravano il grano, conquistando il terzo posto. Come hai vissuto quei Festival e come è cambiato oggi Sanremo rispetto agli anni delle tue partecipazioni?
Parto con un aneddoto carino. Dunque, quando arrivai a Sanremo, per fare le prove, era già sera. Mi accompagnava un giovanissimo Pasquale Mammaro, addetto della mia casa discografica. Proponevo Acqua Alta in Piazza San Marco. Non si cantava dal vivo, ma era tutto in playback. Tutti gli artisti erano accompagnati da un manager, da un discografico, da un amico… Dietro le quinte c’era un ragazzo che doveva provare per ultimo e che non era accompagnato da nessuno: solo. Che sfigato, pensai. Era Eros Ramazzotti, e proponeva Terra Promessa! Poi ho scoperto che il povero Eros non era accompagnato perché i suoi produttori erano già sul palco e nella sala dei comandi: Gianni Ravera e un altro il direttore della baracca che si chiamava Aldo Patriarca. Altro che povero ragazzo solo… Eros aveva già vinto ancora prima di iniziare! Io, ignaro, feci la mia prova e, quando tutti i giornalisti presenti in sala si alzarono in piedi ad applaudire la mia canzone, pensai: ”Evvai!!!…Vinco anche stavolta!”. E invece no: tutte le canzoni più belle e più fastidiose per la vittoria di Eros vennero fatte fuori: Banchelli, Santandrea (intervistato da Indiscreto un anno e mezzo fa, ndr)… Quando Pippo Baudo lesse i nomi degli eliminati, tutti pensammo che avesse sbagliato foglio… invece no. La loro strategia funzionò. Io non dormii tutta la notte e la mattina seguente ripartii per Roma. Sull’autostrada tutte le radio suonavano Acqua Alta… fu da subito un successo radiofonico vero. Dopo il viaggio, quando rientrai a casa quel sabato sera, il Festival era da poco iniziato. Aprii la porta. Il volume della tv era alto e sentii Eros che cantava “…una terra promessa, un mondo diverso….”. L’amarezza te la lascio immaginare. Però, devo dire che quella mia canzone, ancora oggi è conosciuta un po’ da tutti, anche da chi a quel tempo non era ancora nato. Sono passati più di 30 anni e per essere una canzone eseguita in una sola serata del Festival, da un giovane, be’, significa che non era poi così male… Nel 1986 mi ripresentai con E le rondini sfioravano il grano. In realtà, alle preselezioni presentai anche come autore e produttore artistico di una band vocale che si chiamava I Macedonia. La canzone si chiamava La mia anima non te la do. I miei discografici mi mandarono come zavorra… nel senso: faranno fuori lui, e sicuramente prenderanno i Macedonia. Purtroppo per loro, che avevano già fatto un brindisi alla loro ammissione (…come porta jella brindare prima ), alle prove che si facevano da vivo superai me stesso con un’interpretazione bellissima (era il primo anno che si cantava davvero), perché i monitor erano regolati alla perfezione. Ravera si scusò per lo scherzo di due anni prima, eliminò i Macedonia e io partecipai. Purtroppo nell’esecuzione in diretta tv saltò l’ascolto di un monitor e non la interpretai bene come alle prove… mi classificai al terzo posto, dopo Aleandro Baldi e Lena Biolcati, che aveva registrato sulla base l’acuto finale interminabile… un’idea geniale che le fruttò la vittoria nelle Nuove Proposte. Ma anche questa canzone, E le rondini sfioravano il grano, fu molto apprezzata e ancora oggi ha i suoi estimatori: è la mia storia di ragazzo adolescente. Mi chiedi se il Festival è cambiato? Certo. È cambiato, e molto. Basti pensare che nessuno si ricorda chi ha vinto l’edizione precedente, o almeno il motivo di una canzone che ha partecipato. Al contrario, fino alla fine degli anni Novanta, c’erano almeno 3 o 4 canzoni che ti restavano dentro e potevi ricantare anche l’anno seguente. Il segreto è tutto nella scelta dei brani: c’è chi capisce quando una canzone è una canzone, e chi è convinto, pur facendo un altro mestiere, di riuscire a distinguere una canzone da un ammasso di note e di parole senza senso…, spesso in nome del ‘moderno’, del colpo di scena e del favore all’amico, al dirigente… Ma capire le canzoni che funzionano e rimangono nel tempo, oltre a essere un mestiere, è anche una dote. Un misto di esperienza e sensibilità musicale del pop. Purtroppo viviamo un’epoca in cui chi non sa cantare giudica i cantanti, e a volte ha anche la presunzione di insegnargli a cantare; discografici e programmatori radiofonici giovanissimi senza cultura musicale, senza basi; autori mediocri che scrivono solo perché sono amici con il discografico o con l’interprete, ma non conoscono neanche l’ABC delle tecniche di scrittura… è un miscuglio di arroganza e incompetenza in tutti i settori… Artisti che si producono e scelgono quello che devono cantare, mariti o mogli che si improvvisano produttori; produttori che non riescono a capire chi hanno di fronte; nomi altisonanti che non hanno mai scritto una canzone di successo, né mai hanno prodotto un artista portandolo al successo… eppure, giudicano, insegnano, parlano, scelgono….Perché succede questo? Perché ci sono i produttori televisivi incompetenti che scelgono chi deve giudicare, insegnare… Giurie di qualità composte da ballerini, opinionisti, salumieri che ricevono la patente per giudicare una materia che non conoscono. Poveri ragazzi che, invece di partire dalle ‘cantine’ e fare la gavetta, partono già da un successo di immagine, condite dalle lacrime dei genitori, dalle urla degli amici… Un successo a credito che poi diventa ingestibile, non sanno muoversi in questo ambiente perché non hanno basi. Ho sentito dire ad alcuni artisti di venti anni: io ho fatto la gavetta…. La gavetta? A venti anni? Non si rendono conto cos’è la gavetta partendo dalla cantina, in poi. Ieri un’audizione era un punto di partenza, mentre oggi è il punto di arrivo, davanti a milioni di spettatori… e l’audizione diventa già il successo! Gli autori, quelli veri, sono tutti spariti perché è inutile portare cioccolatini a chi è ormai abituato alla merda: nessuno distingue più la differenza. A onor del vero: Baudo era un’altra cosa, e con lui tutti gli autori del tempo.
C’è una tua canzone del 1985, Arrivarono gli americani, post-bellica ma in un certo qual modo anche (apparentemente?) scanzonata, perlomeno nel ritmo e nel cantato. Qual era il messaggio che volevi effettivamente comunicare con questo singolo?
Volevo dire che tutto ha un prezzo! La rinascita dell’Italia nel dopoguerra è stata favorita e sostenuta da loro, dagli americani con il Piano Marshall. Ma la perdita parziale della nostra identità e della nostra libertà è stato il prezzo che abbiamo pagato. Il senso era: se qualcuno ti dà una mano, non è mai gratis! Per questo il brano finisce con le note di Smoke gets in your eyes (fumo nei tuoi occhi), suonate dalla tromba di Oscar Valdambrini.
Il tuo ultimo album è stato Dopo il ponte, uscito nel 1989, e certamente distante rispetto alla produzione precedente, nei contenuti. Da quel momento non hai praticamente pubblicato più nulla, proseguendo solo sulla strada di autore. Puoi spiegarci il perché di questa scelta e quanto (e se) ti è mancato il non proporti più in prima persona?
Dopo il mio primo album, datato 1983, ho continuato a scrivere brani per me stesso, pur continuando a scrivere per altri artisti come Califano, Zarrillo, Ranieri, Murolo, Di Capri, Maria Carta, etc. Ma quando ho partecipato a Sanremo come autore, nell’88, presentando due brani, Come un giorno di sole, cantato da Michele Zarrillo, e Perdere l’amore, interpretato da Ranieri, ho avvertito una strana sensazione di libertà. Libertà dagli orari delle prove, dagli impegni con le radio; libertà di non dover scegliere il vestito per la serata in tv, di non dovermi preoccupare della pettinatura, della montatura degli occhiali. Ero libero, senza stress, mentre gli altri si affannavano per apparire al meglio. Fu allora che dissi a me stesso: be’, anche stare dietro le quinte, non è poi così male… Ma il successo di Perdere l’amore fu così travolgente che la Polygram mi propose di realizzare un nuovo album. Non rifiutai, ma dissi chiaramente che volevo fare ciò che mi piaceva, senza costrizioni. Accettarono. Lavorai ai provini delle canzoni che già avevo scritto nel corso degli anni, e poi, insieme a Maurizio Fabrizio, li mettemmo in bella copia usando i migliori musicisti a disposizione. Erano brani pop, ma molto profondi, impegnati, poco discografici perché non cantavo Amore, Cuore, Dove sei, etc, ma cantavo: Madre Negra Aparecida, Addio Kabul, A Paula Cooper, Eterno Padre… insomma, l’espressione più pura e scevra da imposizioni di mercato. Toccai le 10.000 copie, che per un album non erano pochissime. Mi proposero di partecipare a Sanremo, ma di nuovo tra i giovani, in coppia con gli Inti Illimani, rifiutai di tornare tra i giovani e promozionai il disco al Festivalbar. E forse feci un errore. Ma chi non ne fa? Comunque stare sul palco in prima persona non era qualcosa per la quale avrei ucciso. Ero talmente pieno d’impegni, scrivevo canzoni per altri artisti: collaborai con Ivan Graziani, con Pierangelo Bertoli, poi iniziai a produrre artisti in proprio per mettere su una mia scuderia. Iniziai con Silvia Salemi e i Doc Rock… insomma, Giampiero Artegiani, come produttore e autore soppiantò senza dolore il cantautore Artegiani. Posso dire con fierezza che io stesso spensi le luci del mio palco, dignitosamente. Ora, a distanza di tanti anni, devo dire che sono pentito e, forse, un giorno non lontano…
Una domanda ‘obbligata’ riguarda uno dei tuoi brani più famosi, Perdere l’amore, scritto insieme a Marcello Marrocchi (con il quale hai un lungo sodalizio) e trionfatore al Festival del 1988. Un vero classico della canzone italiana. Come è nata e come siete arrivati ad affidarla a Massimo Ranieri?
Perdere l’amore è nata nel 1986. Una storia vissuta, vera, reale… da un amico molto vicino. Marrocchi venne nello studio dove lavoravamo in quel tempo, prese la chitarra e mi disse: senti se ti piace questa strofa… E partì con E adesso andate via… arrivando fino a… credevo fossi un Re. Lì si fermo e mi disse… non riesco ad andare avanti. Io, folgorato da quell’inizio così profondo, dissi: la finisco io! Fui ispirato a tal punto che il giorno dopo la canzone era finita. La proponemmo a vari artisti e tutti rifiutarono. Nel maggio del 1986 fecero una trasmissione a Mosca, con artisti del Sanremo appena finito e non. Tra loro c’era anche Gianni Nazzaro che mi chiese se avevo un brano da dargli. Visto che Perdere l’amore era ancora inedita, gli dissi di si e quando tornammo realizzammo un provino. Facemmo un patto: se non lo prendevano al Sanremo dell’87 il brano tornava a noi autori perché non volevamo andasse perso dentro un album. Noi sapevamo il potenziale di quella canzone. Un amico mi propose di chiamare Massimo Ranieri, che non cantava da tanti anni, per fargli ascoltare alcune canzoni. Lo chiamai. Andai a casa sua e gli feci ascoltare cinque brani che opzionò subito. Prima di andare via gli feci ascoltare Perdere l’amore. Lui mi disse: la voglio! Dovetti dirgli della questione Nazzaro e del patto che facemmo. Gli promisi che se non lo avessero preso a Sanremo, quella canzone l’avrei data a lui. Perdere l’amore fu bocciata con la dicitura ‘Canzone non idonea al Festival! Purtroppo per Nazzaro, la canzone fu affidata a Ranieri… il resto è noto. Vinse con 2,5 milioni di voti di scarto sul secondo classificato, Cutugno, che aveva già brindato alla vittoria… (come porta male brindare prima…). Considerata e votata dagli italiani, forse generosamente, come la Canzone più bella del Secolo. Scusate se è poco…
Un’altra canzone che ha raccolto ottimi riscontri è A casa di Luca, questa volta presentata da Silvia Salemi nel 1997 che accompagnasti sul palco con la chitarra. Molto dolce sia nell’andamento che nel testo, fu seguita l’anno successivo da un brano più moderno e incalzante, ma altrettanto interessante e sensibile: Pathos. Come sei arrivato a produrla?
Incontrai la Salemi a Castrocaro nel 1993. Quell’anno facevo lo scrutatore. Nonostante i suoi 16 anni aveva una voce profonda, rotonda e diversa dalle altre. Ricordo che dissi a Dino Vitola, allora organizzatore di quel Festival, “Quella ragazzina ha una voce molto particolare… tienila d’occhio”. Ma tutto finì lì. Poi il suo produttore siciliano di allora mi avvicinò e mi chiese di dargli una mano, perché aveva delle canzoni inedite… Le ascoltai. Erano orrende. Glielo dissi. Lui mi chiese se potevo scrivere qualcosa per lei. Lo feci e scrissi 3 o 4 canzoni da provinare, ma prima di questo la feci esibire in qualche spettacolo live per testarne la solidità sul palco. Era fotogenica e determinata. Decisi di lavorarci. Poi lei ebbe una discussione con il suo produttore e si svincolò. La presentai a Castrocaro 1994 con un mio brano: Con questo sentimento. Sotto la supervisione e il controllo di Baudo lei vinse quell’edizione e andò a Sanremo giovani. Fu quello l’ultimo Festival di Castrocaro in cui il vincitore accedeva di diritto alle Preselezioni di Sanremo giovani. La presentai con una rivisitazione Dance di Nessuno mi può giudicare. Passò il turno e partecipò tra i giovani con la mia Quando il cuore e produssi il suo primo album. Si qualificò tra i primi sei e di diritto andò all’edizione di Sanremo 1997. I discografici non ci credevano molto e pensavano fosse un mio abbaglio. Allora tirai fuori dal mio cassetto A casa di Luca, che avevo composto circa cinque anni prima. Lei si rasò i capelli. Il successo fu eclatante e immediato! Dovuto sì, a quella canzone particolare, ma anche alla sua immagine. Solo allora i discografici incompetenti mi diedero ragione e cercarono di salire sul carro del successo… Mi conferirono il Premio Volare per il miglior testo e, se non ci fossero stati i Jalisse, prodotti dalla moglie di Sergio Bardotti, autore storico del Festival, forse avrebbe anche vinto quell’Edizione. Ma in quegli anni Sanremo era un terno al Lotto, c’erano pressioni e priorità. A buon intenditor… Quell’anno avevo anche una band salernitana in gara: i Doc Rock, che proposero un altro mio brano: Che c’è di Rock? Un buon successo che durò fino all’anno seguente, dove gli affidai (sbagliando per colpa di Vitola) un brano troppo importante per loro: Secolo Crudele. Sempre nel 1998 Salemi presentò la mia Pathos. La critica la attaccò perché l’invidia è brutta, e non potendo attribuirle colpe, presero a dire che quel taglio di capelli era da naziskin, e la critica dei saggi della sinistra bacchettona (i critici sono sempre di sinistra ) la fece a pezzi. Per fortuna le radio la pensarono diversamente e Pathos suonò, come a Casa di Luca, in tutte. Per la Salemi realizzai come autore produttore altri sei album: L’Arancia (2000), Il Gioco del Duende (2003), e Il mutevole abitante del mio solito involucro (2007). In due brani di quest’ultimo album esordirono come prima regia di Videoclip, Beppe Fiorello e Giorgio Pasotti. Dal 2008 ho lasciato quella produzione.
Negli anni hai lavorato anche con Franco Califano, personaggio controverso e come spesso accade compianto e rivalutato dopo la sua scomparsa. Cosa ricordi di questa collaborazione con lui e come lo posizioni effettivamente nella storia della nostra musica leggera?
Con Franco ho realizzato diversi album, in tutto circa 30 canzoni: Buio e Lunapiena; La mia Libertà (…che non potei firmare per problemi di case editoriali incompatibili), Per una donna; Ragazzo mio; Passano gli anni; Amare è e tante tante altre… Quando penso a lui mi tornano sempre in mente la stessa immagine e lo stesso aneddoto. Lui viveva in una villetta a Fregene, un posto di mare vicino Roma. Io andavo da lui con la mia chitarra, ma dovevo arrivare non prima delle 17.00, perché lui si svegliava tardi. Fuori, in giardino, c’era sempre un motorino diverso, di una ragazza diversa. Lui scendeva dalla sua camera, lei lo salutava con un bacio e se ne andava. Lui diceva: “Annamo Giampi. Annamo ar bar”. Ci incamminavamo nella nebbia (i luoghi di mare, in inverno sono tetri come film horror), tra gli alberi. In fondo al viale c’era un piccolo bar. Io prendevo un caffè, lui un amaro Ramazzotti con ghiaccio e poi si portava via tutta la bottiglia. Lavoravamo fino a tarda notte. Verso l’una arrivavano i suoi amici che cucinavano qualcosa. Er Palletta, e un signore che faceva il bagnino, sessantenne, biondo platino con i capelli lunghissimi e la fascia da tennista sulla fronte, tatuaggi vari e catenine d’oro spesse un dito. Mi ricordo anche Er Falco. Meravigliosi! Alle due, dopo la pasta supercondita e due bicchieri di vino, io crollavo e, barcollando nella nebbia, me ne andavo a casa. Loro iniziavano a vivere la notte!
Oggi si sente dire spesso che mancano gli autori. I ragazzi che escono dai talent possono anche avere buone doti di cantanti ma alla fine ‘cadono’ quando si tratta di presentare degli inediti. Qual è la formula giusta – se esiste – per scrivere una bella canzone e i passi obbligati da compiere per produrre qualcosa di buono?
Credo di avere già risposto ampiamente a questa domanda: l’audizione non è più un punto di partenza, dopo aver fatto la gavetta. L’audizione è il loro traguardo finale, come se fossero già pronti per proporsi al grande pubblico. La loro gavetta inizia e finisce lì. Purtroppo, anche se alcuni sono molto bravi, ‘Uno su mille ce la fa’, e non sempre è il migliore…. Un danno irrecuperabile favorito anche da giudici che tutto dovrebbero fare tranne scoprire talenti, perché nella loro carriera non ne hanno mai scoperto uno e portato al successo, partendo da zero e senza multinazionali d’appoggio. La formula giusta per scrivere canzoni è quella di aver avuto un maestro al quale hai rubato il mestiere. Un po’ come accade per l’artigianato… Hai la fortuna di vedere come si realizza un buon violino, una bella statua, il vetro soffiato, la salsiccia buona, il vino… e tu, rubi il mestiere con umiltà, mentre il maestro sa che tu stai rubando ed è contento di tramandare l’arte che, a sua volta, ha rubato al suo meastro. Chiaramente devi essere predisposto ad assorbire le finezze e le tecniche, altrimenti non ce la farai. Ma questa è l’unica via per imparare a fare l’autore. Stessa cosa vale per la produzione artistica. Devi imparare a stare in studio e a tirare fuori il meglio dal cantante, dall’arrangiatore, dai musicisti e dal fonico. Seguendo e rubando il mestiere ad un produttore… ma un buon produttore è sempre un buon musicista. Un buon manager, al contrario, deve essere un uomo di idee, ma spietato e affarista. Un buon produttore sa scegliere il bravo manager che fa al caso dell’artista prodotto.
Secondo te quanto la musica nelle sue varie sfaccettature può influire positivamente (ma se è il caso anche negativamente) sul benessere di una persona, e come?
Credo che influisca molto. Giustamente, come hai detto, la musica ha varie sfaccettature, e ognuna di queste, se incontra l’anima giusta, riesce a influenzare gli stati d’animo, appunto. A parte la musicoterapia intesa come mezzo di aiuto per chi ha problemi psichici o fisici, ad esempio, per chi ha problemi di respirazione, suonare correttamente il flauto dolce, inspirando e soffiando, può essere senz’altro un aiuto. Ma la musicoterapia può essere intesa anche come onda sonora rilassante e eccitante. Gli anni Settanta sono un esempio lampante di come un certo tipo di musica venisse usata, mixandola alle varie sostanze stupefacenti, per raggiungere stati mentali che andavano oltre la percezione normale delle cose. Certo, chi ascolta Mahler ha bisogni diversi da chi ascolta i Pearl Jam. Se invece andiamo sul fronte canzoni pop, be’, non c’è dubbio che la musica aiuti a sognare, ad andare avanti… pensa solo a Renato Zero: quante persone si sono ritrovate nei messaggi delle sue canzoni e ne hanno fatto uno stile di vita? Quanti ragazzi si sono ritrovati (purtroppo) nel messaggio del primo Jovanotti? Che era: “Balla, divertiti e non pensare”. Tutta la generazione degli anni Ottanta. Tutti quelli che hanno sposato la Cretin Music lanciata dall’ottimo Claudio Cecchetto con il Gioca Jouer: Saltare …. Camminare …. Phon…. E tutti a fare la mossa di asciugarsi i capelli… Quello è stato il periodo peggiore. Abbiamo perso un paio di generazioni e siamo regrediti musicalmente. Ma il conto in banca dell’ottimo Cecchetto no. E c’è ancora chi lo apprezza… Per fortuna Jovanotti ha poi dimostrato di avere un mondo bellissimo da raccontare. Per concludere, la musica riesce a cambiare gli animi, le tendenze, l’intelligenza di chi ascolta e ti può stimolare e crescere (vedi tutto il cantautorato degli anni Settanta/Ottanta; il Jazz americano degli anni Trenta/Quaranta…) o ti può rendere un imbecille senza ideali. La musica è sempre espressione, quindi, messaggio da recepire.
Quali sono, infine, i tuoi piani attuali? Potremo riascoltare, prima o poi, il Giampiero Artegiani cantante con un disco di inediti? E hai qualche rimpianto rispetto al tuo percorso di artista, una particolare canzone o progetto che ritieni avrebbe meritato migliore fortuna?
I miei piani attuali? Non ne ho. Scrivo testi per Michele Zarrillo, perché secondo me è una delle più belle voci internazionali e godo quando canta le mie parole, sulle sue musiche. Poi sto scrivendo un libro da tanti anni, ma non è il solito libretto leggero del cantautore che ci prova scrivendo aneddoti e stronzate varie. È una storia d’amore ambientata nel 1600, tra poteri della Chiesa, conflitti Illuministici, e la ricerca interiore del Perché del Tutto. Forse sarà la mia opera ultima perché richiede una cultura ampia, a 360 gradi, che ancora non ho, ma ci sto lavorando. Spero di ritrovare la forza intellettuale di rituffarmi nella mischia musicale, ma la cosa mi fa un po’ paura per i motivi già espressi. Rimpianti? Certo. Alcune cose, riviste e analizzate a distanza di anni, non le rifaresti più. Ma quel che è fatto è fatto e, tutto sommato, non mi sembra di aver fatto poco. Poi, c’è chi nasce con una stella accesa e incontra le persone giuste al momento giusto (conta moltissimo) e fa la cosa giusta. Io avrei potuto fare di più se mi fossi circondato di persone diverse o avessi avuto il coraggio e la spietatezza di mollare senza rimorsi chi non era più utile al mio progetto. Purtroppo la mia natura mi impedisce di abbandonare la nave quando affonda. Le canzoni che avrebbero dovuto avere più fortuna? Tante. Almeno una per ogni album che ho scritto per me e per altri. Le canzoni, in fondo, siamo noi e ognuna di loro ha una vita sua: una nasce bella e sfortunata, un’altra brutta e fortunata… e tu aspetti sempre di scriverne una bella e fortunata. Un paio di volte credo di esserci riuscito, e questo mi basta per dire che, quando ho scommesso su me stesso, non ho sbagliato. Qualcosa di me resterà per sempre. Questo è quello che volevo, e forse me lo sono guadagnato.
Intervista realizzata da Paolo Morati, in esclusiva per Indiscreto