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Marzorati e Basile non sono un caso

Fabrizio Provera 03/02/2012

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di Fabrizio Provera
Lei crede al caso? Lo domandò Eugenio Scalfari a Giulio Andreotti, in una celebre intervista ripresa da Paolo Sorrentino nel Divo.
 “Io non ci credo al caso; io credo alla volontà di Dio”.
“Dovrebbe invece. Dovrebbe crederci al caso. Dunque, presidente, è un caso che i familiari di alcune persone assassinate la odino? E’ un caso che lei sia stato tirato in ballo in quasi tutti gli scandali di questo paese? Insomma – come ha detto Montanelli – delle due, l’una. O lei è il più grande, scaltro criminale di questo paese, che l’ha sempre fatta franca; oppure è il più grande perseguitato della storia d’Italia. Allora le chiedo: tutte queste coincidenze sono frutto del caso o della volontà di Dio?”.
Non abbiamo risposte a domande così pesanti, ma pur nel rispetto della laicità e della sensibilità di ciascuno, ci rafforziamo nel credere – una volta di più, dopo la straordinaria vittoria della Bennet sul Maccabi – che la storia di Cantucky, e l’essenza stessa della pallacanestro (specie nel momento di massima difficoltà, economica e non solo, del basket italiano e delle sue articolazioni, caso Superbasket in primis), non siano mai regolate dal caso.
Non è un caso che Cantucky sfoderi una prestazione – mentale, prima che tecnica – di eccezionale intensità dopo la strigliata di Trinchieri e le durissime parole pronunciate a Sassari. Dimostrazione, l’ennesima, della capacità di visione del coach canturino. Non è un caso che Cantucky prevalga ancora una volta grazie al duo Micov-Markoishvili, barometri difensivi e offensivi. Non è un caso che dopo l’ennesima recupero del Maccabi, formazione di ben altro spessore rispetto a quella vista a Milano in ottobre, nell’ultimo quarto Vlado Micov tiri il fiato incrociando a pochi metri dal parquet lo sguardo di Pierluigi Marzorati, che nell’epica finale di Colonia del 1982 – soprattutto negli ultimi minuti – salì in cattedra con la sua smisurata intelligenza cestistica.
Trent’anni dopo queste prestazioni di Micov consentono di mantenere vivo il sogno dell’eccezionalità, permettono a Cantù di sublimare lo sforzo dei singoli in una prestazione di squadra che supera – per qualità e intensità – la sommatoria del valore dei singoli stessi. Alla fine i 9 assist del serbo la dicono lunga sulla sua assoluta centralità per gli equilibri di Cantucky. Non è un caso, ormai è chiaro a tutti, che nel momento della difficoltà emerga ancora una volta l’incontenibile agonismo di Gianluca Basile, che ancora una volta sfodera una prestazione di pura nobiltà cestistica. L’asso di Ruvo di Puglia calato perfettamente nei panni degli eredi di un’antica tradizione, quella Insubre, dove l’uso della spada conferiva al contadino il blasone e il riconoscimento del suo popolo, che si sentiva difeso.
Non è un caso che il pubblico canturino dimostri ad Andrea Cinciarini che, nonostante le difficoltà, gli verrà sempre riconosciuta la bontà degli sforzi, sia difensivi che offensivi. Ciò detto, vien voglia di chiedersi cosa sarebbe del gioco di Cantù con l’inserimento non diciamo di un asso come Keith Langford, ma di una point-guard di scuola Usa. Perché, come ha detto con la consueta saggezza Bruno Arrigoni, molto (anche se non tutto) passa dal campionato, dove è oggettivamente necessario ottenere qualcosa in più. Ma per adesso lasciate che il sogno di Cantucky, sogno che poggia su solide basi, continui. Dopo anni di privazioni e sofferenze, il tempo della gloria è tornato. Non si finirà con trofei alzati, probabilmente, ma tutto quanto sta accadendo non è un caso.
 

Fabrizio B. Provera, 3 febbraio 2012

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