Mr. McMahon

15 Ottobre 2024 di Stefano Olivari

Pochi personaggi pop sono più estremi di Vince McMahon, al quale Netflix ha dedicato una miniserie in 5 puntate, Mr. McMahon, realizzata prima delle recenti accuse di molestie sessuali. Non un inedito, nella vita del patron della WWF poi diventata WWE e adesso operante senza di lui, che nel wrestling è stato letteralmente tutto: organizzatore e promoter, poi presentatore, poi autore di sceneggiatore sempre più al limite, infine egli stesso wrestler e personaggio principale delle sue storie, probabilmente unico caso di dirigente più amato-odiato dei suoi atleti. Con il massimo del culto raggiunto ai tempi di Wrestlemania, nel cuore degli anni Ottanta (memorabili in quel periodo le comparsate a bordo ring di Cindy Lauper), e del lancio di Smackdown, nei primi anni Zero.

Mr. McMahon è un bellissimo racconto dell’America, non a tesi perché si dà spazio sia ai critici di Mc. Mahon sia a McMahon, che in ogni intervista sottolinea la separazione fra vita reale e finzione e quindi la possibilità nella finzione di inventarsi di tutto: fra le poche idee che non è riuscito a mettere nelle sceneggiature quella di avere un figlio da sua figlia Stephanie, altro personaggio chiave della saga dei McMahon insieme al marito Triple H e al fratello Shane, tutti bullizzati dal capofamiglia così come la madre Linda, che in una delle storie più geniali finisce in coma e viene messa sul ring in sedia a rotelle mentre suo marito limona con l’amante, in quell’occasione l’iconica Trish.

Non spoileriamo niente perché quasi tutto già lo si conosceva, ma diciamo che in 5 favolose puntate che sarebbero potute essere 50 Mr. McMahon mostra tante cose interessantissime, a partire dalla lotta con la WCW di Ted Turner, insospettabile amante del wrestling, e tantissimi combattimenti entrati nella leggenda. Come quello con Donald Trump, rappresentato da Umaga, che dopo la vittoria rasò a zero McMahon. Forse ci è sfuggito, ma nella serie non si dice che Linda sarebbe poi diventata un membro dell’amministrazione Trump, per la gioia del medio inviato italiano negli USA che leggendo il New York Times come potrebbe fare da casa dice che l’America di McMahon coincide con l’America di Trump. Sottotesto: se uno è così cretino da credere nel wrestling allora può credere anche in Trump.

La questione è in realtà più sottile, prima di tutto perché fra gli amanti del wrestling le opinioni politiche sono diverse con proporzioni simili a quelle del mondo reale. E poi perché il wrestling stile McMahon si basa sul concetto di kayfabe, ben spiegato nella serie di Netflix. La kayfabe si distingue dal fake perché viene portata avanti anche nella vita reale: pur essendo tutto palesemente, anche agli occhi di un bambino, studiato a tavolino, le stelle del wrestling devono essere in una dimensione in cui possa almeno venire il sospetto che stiano facendo sul serio o che stiano estremizzando parole e gesti reali. Tutti sanno che Hulk Hogan, Mr. T, The Rock, John Cena, Bret Hart, eccetera, recitano o recitavano, ma tutti vogliamo che un po’ siano credibili. Infrangere la kayfabe, come fecero Shawn Michaels e altri, è nel wrestling il peggiore dei crimini. Ecco, Vince McMahon la sua kayfabe non l’ha mai infranta.

stefano@indiscreto.net

 

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