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Occidente, ci vuole un manager alla Ferguson
Stefano Olivari 08/02/2016
Molti libri di storia, anche di grandi autori, hanno una prosa respingente e ossessionata dal dogma del ‘mettere tutto’ in modo che colleghi e accademici approvino. Non è il caso di quelli di Niall Ferguson, noto al pubblico italiano soprattutto come commentatore (sul Corriere della Sera) di politica internazionale, che il suo massimo l’ha probabilmente raggiunto con Occidente – Ascesa e crisi di una civiltà (molto più bello ed evocativo il titolo originale: Civilization – The West and the Rest), da poco letto nella versione Oscar Mondadori. Ferguson, liberale e liberista, in quest’opera del 2011 si smarca dal dibattito sullo scontro di civiltà per analizzare una civiltà di cui conosciamo tutto ma forse non le ragioni del suo successo. E quindi nemmeno quelle del suo declino attuale, che in troppi considerano irreversibile. Stiamo parlando di quella che genericamente definiamo ‘occidentale’, senza bisogno di essere troppo tignosi con le definizioni.
Il cinquantaduenne Ferguson pur avendo il curriculum dello storico tradizionale (attualmente insegna ad Harvard) è anche suo modo un personaggio pop: spesso invitato in dibattiti televisivi americani, vista la penuria di intellettuali anti-Obama (lui è stato anche consigliere di McCain e Romney), la sua seconda moglie è Ayaan Hirsi Ali, la scrittrice somala poi diventata olandese conosciuta per il suo impegno pro diritti civili nei paesi islamici (e per questo bersaglio mobile di islamici più o meno moderati).
Le civiltà sono sistemi complessi, che soltanto qualche polveroso manuale scolastico fa coincidere con condottieri e conquiste militari, ma una comparazione di tenore di vita medio, livello tecnologico e cultura in senso ampio mostra che intorno al 1500 Cina e Impero Ottomano valevano senz’altro più di tutta l’Europa messa insieme. Cos’è che quindi ha consentito il successo di una civiltà e la sua, diciamolo (lo dice anche Ferguson), incredibile capacità di creare emulazione? Perché molti arabi e molti orientali sognano prodotti, modi di vivere, simboli e luoghi occidentali, ma il contrario si verifica soltanto in pochissimi casi. Al Thani vuole il Paris Saint-Germain, nessun miliardario parigino sospetta invece dell’esistenza del calcio in Qatar.
Ferguson individua sei killer application, che sono poi le sei parti in cui è diviso il libro. La prima: la competizione. La divisione politica del nostro continente ha messo in moto meccanismi negativi (guerre per lo spostamento dei confini) ma anche positivi, per fare sempre meglio dei vicini ed espandersi al di fuori del mondo conosciuto. La seconda: la scienza. Dal 1500 ad oggi la maggior parte delle scoperte e delle invenzioni è stata fatta da europei o americani, nei contesti più diversi (università, aziende private, militari) e con un comune denominatore: la relativa maggiore libertà di pensiero e di sperimentazione.
La terza: la politica. Nel senso di cammino verso lo stato di diritto e verso la tutela dei diritti di proprietà: la storia europea ed a maggior ragione americana è stata un lungo avvicinamento al potere e alla libertà à dell’individuo nei confronti dello stato. Con scarti atroci come nazismo e comunismo, non a caso finiti nella pattumiera della storia. Lo storico scozzese sottolinea come la superiorità militare dell’Occidente sia stata finora figlia di altre condizioni (tecnologia, investimenti, politica) più che di un’attitudine alla conquista come valore in sé, concetto che magari poteva valere per gli antichi Romani.
La quarta killer application: la medicina. Che ha consentito di allungare la vita media, non soltanto nei paesi occidentali, al contempo allungando anche la prospettive di lavoro e di investimento. Chi ha o pensa di avere un orizzonte temporale più lungo costruisce, magari senza nemmeno accorgersene, anche qualcosa di più duraturo. La quinta: i consumi. Intesi in senso quantitativo ma anche come filosofia e società. Una società non più di sudditi semischiavizzati o comunque di persone desiderose di vivere esattamente come i propri genitori è per sua natura una società dinamica, che impone miglioramenti ed espansione. Sesta ed ultima: l’etica del lavoro. Non soltanto in senso weberiano (anzi Ferguson è ironico sul discorso ‘protestante’, mettendo a confronto parti d’Europa con diverse idee di cristianesimo e uguali tassi di sviluppo), ma in quello di incremento del tasso di lavoro e di risparmio, in una tensione verso il miglioramento che rappresenta un’idea e non una semplice fonte di sostentamento.
La nostra sintesi brutale non rende onore a questo libro, scritto in purissimo stile Ferguson e pieno di affascinanti divagazioni. Diciamo affascinanti perché il piacere di scoprire qualcosa che non si conosce è sempre notevole e a noi è capitato in molti punti, in particolare quando viene affrontato il tema del colonialismo: se sono noti il carattere commerciale dell’inglese e quello molto ideologico del francese, mai (anche perché arrivato quasi alla fine, un po’ come il nostro) era stato secondo noi tratteggiato così bene quello tedesco, soprattutto in Africa. Uno stimolo a leggere altri testi, per capire in quale sistema culturale e istituzionale si siano inseriti i discorsi di un pazzo in una birreria di Monaco (insomma, un po’ più delle sanzioni di Versailles). Il libro, come tutti i migliori libri di storia, ci porta quindi a riflettere sul presente. Le killer application dei secoli scorsi esistono ancora in Occidente? Dalla risposta a questa domanda dipende il nostro futuro. La certezza è che non si possono comprendere gli altri, ma nemmeno conviverci, senza sapere chi siamo noi.