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Paura di Dario Argento

Paolo Morati 13/01/2015

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La solitudine che può portare al suicidio quando si è all’apice del successo. È questa l’immagine, claustrofobica, che emerge immediata come un colpo netto di mannaia, leggendo le prime righe di Paura, l’autobiografia di Dario Argento curata da Marco Peano, che Einaudi ha di recente pubblicato. Romano, proveniente da una famiglia con la fotografia e il cinema nel sangue – figlio di Elda Luxardo (fotografa) e di Salvatore Argento (ex funzionario Unitalia, agenzia che si occupava della promozione del cinema italiano all’estero, e poi produttore) – il regista propone in 354 pagine il racconto della sua esistenza mettendo in primo piano esperienze che lo hanno segnato fin da quando a quattro anni vide sul palcoscenico rappresentato il fantasma del padre di Amleto, dando sostanzialmente il via a un percorso complesso e destinato a diventare un punto di riferimento per il cinema (appunto) della paura. Ma se è vero che parla ampiamente dei film, soprattutto di quelli più celebri, il volume è anche (o soprattutto) una sorta di confessione pubblica di chi aveva paura del corridoio di casa, percorrendolo di corsa per raggiungere la salvezza nella propria stanza, e non amava per nulla Biancaneve, considerando la più bella del reame quella ‘evil queen’ nota ai più anche come Grimilde.

Paura è la storia di un bambino magro e timido influenzato dalla visione del Fantasma dell’Opera di Arthur Lubin e dalla lettura dei Racconti del grottesco e dell’arabesco di Edgar Allan Poe, con questi ultimi che rappresentarono la chiave per aprire una stanza nella sua testa verso un mondo dove sentirsi veramente se stesso. Ma è anche la storia di un ragazzo appassionato di cinema, che si trasferisce a Parigi per passare un periodo da ‘bohémien’ e successivamente si afferma come intraprendente critico per Paese Sera (splendido l’aneddoto dell’intervista a John Huston), capace di controllare la timidezza e quindi diventare sceneggiatore dove ciò che conta è raggiungere la sospensione dell’incredulità, e da L’uccello dalle piume di cristallo in poi regista alla ricerca di soggettive impossibili, in lotta perenne con la censura definita una “creatura subdola in grado di annidarsi ovunque come un serpente velenoso pronto ad aggredirti”. In Paura si parla anche degli esordi di Dario Argento al fianco di Sergio Leone e delle collaborazioni con Ennio Morricone, del fallimento economico, e dell’intreccio delle storie sentimentali dell’autore, nonché del rapporto e dialogo con le figlie Fiore e Asia, frutto rispettivamente del matrimonio con Marisa Casale e della relazione con Daria Nicolodi, fino a quel ‘Primo Amore’ riemerso dal passato.

Tanti poi i princìpi del cinema argentiano citati: dalla preferenza di Torino come set dove girare, alla costante presenza del pensiero e delle teorie di Freud, con il fascino dell’inconscio e i sogni visti come linguaggio universale, fino alla la musica tratteggiata come sublime mezzo di comunicazione. E poi l’immaginazione e la ricerca tecnica, che vede nel tempo l’adozione della macchina da presa Pentazet (4 mosche di velluto grigio), quella del dolly Chapman e della micro camera snodabile Snorkel (Profondo Rosso), fino all’uso di pellicole Kodak a bassissima sensibilità dipinte in fase di stampa con il procedimento Tri-Pack (Suspiria), ai celebri piani sequenza (in Tenebre) ottenuti tramite la gru Louma e all’uso di una minuscola e acrobatica macchina da presa a molla, e (in Opera) l’idea di una gru con braccio meccanico rotante comandato a distanza. Interessante da leggere per chi ha davanti a sé solo l’immagine pubblica di Dario Argento, Paura è in definitiva la storia di chi (come rivela lui stesso) finché là fuori ci sarà qualcuno da spaventare potrà dirsi una persona felice.

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