Calcio
Il pomeriggio di Roma-Dundee
Stefano Olivari 13/04/2018
Il tre a zero della Roma contro il Barcellona è stata la più grande rimonta nella storia del calcio italiano in Coppa dei Campioni-Champions League. Non l’unico tre a zero, ma l’unico ‘necessario’ per non essere eliminati, ribaltando il quattro a uno dell’andata. Una volta tanto il termine ‘impresa’ non è quindi usato a caso, perché quella della squadra di Di Francesco è stata un’impresa e non certo un miracolo visto l’andamento della sfida, anche quella del Camp Nou. L’attualità di Dzeko, De Rossi e Manolas, in gran parte casuale (Manolas era stato ceduto allo Zenit e Dzeko al Chelsea, prima che cambiassero idea all’ultimo secondo, il greco anche oltre), ha quindi superato la storia, pur gloriosa, di Roma-Dundee United anche se il fascino della prima partecipazione alla massima competizione europea rimane nella memoria e Pruzzo non era inferiore a Dzeko, senza metterci a fare tutti gli altri confronti diretti che, ma con l’effetto nostalgia siamo di parte, secondo noi premiano la Roma degli anni Ottanta.
È vero che quella partita era la semifinale della Coppa dei Campioni 1983-84, ma il peso specifico dell’avversario scozzese non era nemmeno paragonabile a quello di un Barcellona che non sta vivendo bene il dopo Neymar ma sta comunque per vincere in scioltezza il suo venticinquesimo campionato spagnolo, il nono di un’era Messi (meglio, Messi-Iniesta) condita anche da quattro Champions League e mille altri trionfi. Insomma, una squadra che ha avuto una serata sbagliata ma che rimane fra le migliori del mondo. E quel Dundee United? Nessun campione, nemmeno in rapporto alla storia del calcio scozzese, ma diversi buoni giocatori: il regista Bannon, i difensori Gough e Narey (autore del gol al Brasile a Spagna ’82), l’attaccante Sturrock. Anche se il segreto di quella squadra iperdifensiva, arrivata in vetta all’Europa a forza di difese eroiche, era Jim McLean, assistente di Jock Stein al Mondiale del 1982 e grande motivatore di giocatori di seconda fascia. Anche grande urlatore di insulti a bordo campo, cosa non sempre gradita agli avversari (e al ritorno Sebino Nela lo ripagò in stile Nela). Per dare un’idea delle differenze di budget, basta confrontare i premi per la qualificazione alla finale: 15 milioni di lire a testa per i romanisti, l’equivalente di circa un milione per gli scozzesi.
L’unico problema per Liedholm fu l’assenza di Falcão nella partita di andata, a causa di un infortunio. Ma si pensava che la differenza di cilindrata fosse sufficiente per ridurre il ritorno dell’Olimpico a una festa. Invece il primo tempo in Scozia fu terribile, con la Roma brutalizzata dal pressing del Dundee United nonostante fosse in formula iper-offensiva, con Bruno Conti a centrocampo insieme a Cerezo e Di Bartolomei, Chierico esterno più Graziani e Pruzzo di punta. I gol arrivarono però nel secondo tempo, opera di Dodds e Stark (con la collaborazione di Tancredi), e trasformarono una semifinale sulla carta morbida in un grosso problema. Eppure la fisicità del Dundee, che fece invocare l’antidoping al presidente romanista Viola (l’antidoping comunque c’era, all’epoca partiva proprio dalle semifinali), non era certo una sorpresa.
Nel ritorno dell’Olimpico, il pomeriggio del 25 aprile di 34 anni fa, Falcão fu della partita ma incise poco. Il Dundee United fu meno aggressivo che al Tannadice Park e con un ritmo più umano la superiorità tecnica dei giallorossi venne fuori tranquilla. Tancredi in porta, Nappi, Righetti, Nela e Maldera a centrocampo, Cerezo, Di Bartolomei, Falcão e Conti a centrocampo, Pruzzo e Graziani in avanti. Sullo zero e zero gli scozzesi ebbero un’occasione enorme con Milne, poi a metà del primo tempo un colpo di testa di Pruzzo su calcio d’angolo battuto da Conti mise la partita sul binario giusto. Prima dell’intervallo raddoppio del bomber (controllo di petto e tocco alla Gerd Müller) e al 12’ del secondo tempo il gol del definitivo tre a zero: rigore fischiato da Vautrot per atterramento di Pruzzo e Di Bartolomei a segno con la solita sicurezza. Gli 80mila presenti gioirono, anche se in maniera non paragonabile a quella post Barcellona: comunque alla fine ci fu una mini-invasione di campo, che all’epoca non destò scalpore ma oggi sarebbe inimmaginabile e non soltanto in Champions League.
Tutti iniziarono a sognare la coppa nella finale da giocarsi proprio all’Olimpico, il 30 maggio, contro il Liverpool. Non sarebbe andata bene e peggiore sarebbe stato il lascito della partita con il Dundee United: la Roma era sì più forte degli scozzesi, ma Viola aveva avuto la bella idea di assicurare il passaggio del turno facendo avere 100 milioni di lire all’arbitro tramite un intermediario, il direttore sportivo del Genoa Spartaco Landini, che a sua volta si era rivolto ad un altro intermediario, tale ‘Paolo’ (Giampaolo Cominato). Un tentativo di corruzione che passò in cavalleria, per avvenuta prescrizione, ma che rimane una macchia su quella partita al contrario dell’arbitraggio di Vautrot che, estraneo ai fatti (i soldi non gli arrivarono mai), arbitrò bene, annullò un gol a Bruno Conti e assegnò alla Roma un rigore nettissimo. Vecchie storie, Roma-Barcellona è stata e rimarrà di tutt’altro livello.